Recensione Tulpan - La ragazza che non c'era (2008)

La presunta innocenza della vita nomade e pastorizia, fatta di valori solidali, compromessi con la natura e rigida divisione sociale del lavoro, è raccontata attraverso la sapiente modulazione dei registri narrativi, sempre in bilico tra accenti da commedia nera e un solido documentarismo.

Vivere o fuggire dalla steppa?

Se c'è una piccola certezza, alquanto inedita, fornita dall'ultimo Festival di Cannes è quella di una continuità evidente tra i gusti del pubblico-critica e quella delle giurie. L'entusiasta accoglienza tributata al buon Tulpan di Sergei Dvortsevoy (forse eccessiva) si è tramutata difatti nel premio Un Certain Regard. Ancora un'opera alle prese con la lontananza, registrata con secchezza e ironia attraverso il racconto di un ritorno in Kazakhistan da parte di Asa, reduce dal suo servizio in marina. Il ritorno nella steppa, dove la sorella trascorre una vita nomade con suo marito, è traumatico ma alleviato dalla possibilità di fuggire previa il matrimonio con Tulpan, figlia di un pastore e desiderosa di fuggire in città ad Alma Ata. Speranza vanificata dalle grandi orecchie di Asa che ripugnano la giovane ragazza, ma che non impediscono a Asa di contrastare i voleri del capo famiglia.

Dvortesevoy fa sentire tutta la sua abilità descrittiva, valorizzando nel migliore dei modi il fuori campo insito nell'alterità. La steppa, i montoni, l'orizzonte, la polvere, i continui canti, l'isolazionismo di questa famiglia, i loro rituali e i loro contrasti sono materiale narrativo sufficiente per un forte coinvolgimento emotivo. La presunta innocenza della vita nomade e pastorizia, fatta di valori solidali, compromessi con la natura e rigida divisione sociale del lavoro, è raccontata attraverso la sapiente modulazione dei registri narrativi, sempre in bilico tra accenti da commedia nera e un solido documentarismo, figlio della formazione di Dvortesevoy, precedente a questo lungometraggio di finzione. Un cinema che sembra istintivo e perfino naif, ma che in realtà è pensato in ogni dettaglio, per restituire quelle sensazioni tattili e ipnotiche che fanno la forza del film, ma che portano troppo lontano il pensiero.

Come gran parte della produzione autoriale del Far East, specie di quella cinese, Tulpan vive della radicata contrapposizione tra un modello di vita agricolo e la spinta verso una modernità sconosciuta ma dotata di una grande portata attrattiva. All'interno di questo solido schema, in cui Asa rappresenta la spinta verso l'esterno, Tulpan si dimostra capace di un umanesimo ricco e contagioso, in tutte le figure umane tratteggiate. Eppure, quel finale che tante lacrime ha sollecitato, si fa portatore di un punto di vista probabilmente sincero ma tutt'alto che coraggioso, in piena eredità con il fardello culturale del passato sovietico.