Recensione Oxford Murders - Teorema di un delitto (2008)

De la Iglesia dirige un thriller dall'impianto classico, basato sostanzialmente sulla formula del whodunit: il mestiere c'è, ma non è il "suo" cinema.

Un enigma datato

Delitti inspiegabili a Oxford, di quelli da far appassionare qualsiasi lettore di gialli e da non far dormire la notte Scotland Yard. Solo un sottile filo conduttore a collegarli: dei simboli che sembrano formare una serie aritmetica, e una sfida lanciata dal serial killer al professor Arthur Seldom, brillante matematico. In mezzo, un giovane sudamericano che doveva trascorrere un soggiorno di studio e si trasforma invece in detective improvvisato, complice la fascinazione su di lui esercitata dalla figura di Seldom; e poi, digressioni a più non posso su Wittgenstein, la matematica e la filosofia, la verità assoluta, la morale.
L'irriverente Alex De la Iglesia abbandona la sua Spagna per trasferirsi in terra d'Albione (ma i finanziamenti sono francesi), e abbandona anche l'usuale registro caustico e grottesco. Difficile ritrovare qui (se non in qualche primo piano) i graffianti ritratti sociali di La comunidad - Intrigo all'ultimo piano e Crimen perfecto, esempi di noir virati alla caricatura, ma non per questo meno corrosivi. La scelta di raccontare un giallo classico (basato innanzitutto sul meccanismo del whodunit) sembra aver comportato, per il cinema del regista iberico, un inizio di normalizzazione, tanto più evidente quanto più patinata e "ripulita" risulta la confezione.

Non che tutto sia negativo, in questo Oxford Murders - Teorema di un delitto. De la Iglesia continua a girare con solida professionalità (e ci mancherebbe altro, viene da dire), e regala pure un bel piano sequenza nei minuti iniziali, che lentamente conduce l'occhio della spettatore alla scoperta del primo cadavere. L'insolita coppia formata da Elijah Wood e John Hurt regala ritratti convincenti di due personaggi complementari (lo studente idealista e il professore geniale e meschino) per quanto sommariamente tratteggiati dalla sceneggiatura. Il problema è che questo film sembra un po' un corpo estraneo nella filmografia del regista, poco in linea con la sua poetica, evidentemente anche poco nelle sue corde. Ispirandosi a un romanzo di Guillermo Martinez, De la Iglesia ha confezionato un thriller che sembra uscire direttamente da un cinema d'altri tempi, in cui la scoperta del colpevole comporta buona parte della tensione narrativa (significativo il riferimento al gioco da tavolo Cluedo); il regista spagnolo ha infarcito poi il tutto di considerazioni filosofiche che restano a un livello superficiale, senza influire nella sostanza del prodotto. La riflessione sulla verità e sulla possibilità o meno di arrivarci (o semplicemente di definirla) sembra un semplice pretesto, non funzionale a uno sviluppo narrativo che resta invece molto lineare.

Abituato al parossismo e alla stilizzazione iperrealistica, il regista non sembra a proprio agio quando si tratta di definire caratteri credibili, scivolando sovente nello stereotipo (con la parziale eccezione della giovane Beth, padrona di casa che prova un'attrazione non ricambiata per il protagonista) e cercando, laddove possibile, di inserire nella narrazione personaggi affini alle caricature da lui offerte nei film precedenti (il compagno di stanza del protagonista, ad esempio, o l'amico del professore che vediamo anche in alcuni riusciti flashback). Non convince neanche il controfinale (in fondo prevedibile) né la discutibile morale che ne deriva.
La sostanziale freddezza e la sensazione di "compitino ben svolto" che derivano dalla visione di questo film suggeriscono (con una certa urgenza) che De la Iglesia torni nella "sua" Spagna, e soprattutto a temi ed atmosfere a lui congeniali. Non c'è da disperare: in fondo, dopo Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie, Tim Burton diresse Big Fish. Succederà anche ora qualcosa di simile?

Movieplayer.it

3.0/5