Recensione Hedwig - La diva con qualcosa in più (2001)

Al di là di tutte le esagerazioni che ogni manifesto queer porta sempre con sé, Hedwig parla il linguaggio semplice delle emozioni, quelle che accompagnano la ricerca di sé stessi e dell'amore, della completezza.

L'origine dell'amore

Il film ha fatto incetta di premi in tutti i festival dove è stato presentato, lo spettacolo teatrale (da cui il film è tratto) continua ad essere portato in scena, con grande successo, dalle compagnie di mezzo mondo (Italia compresa), la colonna sonora, a distanza di anni dalla sua pubblicazione, va ancora a ruba. Hedwig - La diva con qualcosa in più è diventato in breve tempo un vero cult, osannato dalla critica e amatissimo dal pubblico, e nessun musical approdato nelle sale cinematografiche dopo di esso è stato circondato da un simile calore. Il motivo di questo successo sta tutto nella sua geniale composizione, un cortocircuito di piccole, brillanti idee che mettono insieme il Simposio di Platone e il suo suggestivo mito delle metà, il cinema di Bob Fosse, Robert Altman, Rainer Werner Fassbinder e il glam rock di Lou Reed e David Bowie, l'animazione minimalista e l'universo queer, con i suoi colori sgargianti, il trucco pesante e le parruccone à la Farrah Fawcett.

Corpo e anima di Hedwig è il carismatico regista-attore John Cameron Mitchell, ma la linfa vitale, della pièce teatrale prima e del film poi, sta nel genio di Stephen Trask, autore dei testi e delle musiche di questa strabiliante opera rock postmoderna che ha già segnato il cinema del nuovo millennio. Mitchell e Trask si sono incontrati per la prima volta in aereo, tra le nuvole, e insieme hanno scritto la storia di Hedwig e delle sue lacerazioni, il racconto di un essere umano diviso a metà, nato e cresciuto in una città, Berlino, tagliata in due dalla Guerra Fredda, e volato in America con un pezzo di corpo in meno, per inseguire l'amore e il successo, finendo invece col conoscere l'amaro sapore del tradimento e dell'abbandono. Hedwig è nata Hansel, sbocciato nell'anno dell'erezione del Muro, nella parte Est, e segnato da un'infanzia trascorsa tra il letto, teatro dei continui abusi da parte del padre, e il forno, con la griglia a fargli da cuscino durante l'ascolto della radio delle Forze Americane. Hansel scopre così il rock e diventa Hedwig quando un percorso di dolcetti e gelatine gommose lo conduce tra le braccia del sergente Robinson, un omaccione di colore che gli soffia in faccia la libertà e il sogno americano, al prezzo di un taglio secco col passato che tinga di rosa il suo passaporto.

Narrato essenzialmente attraverso flashback commentati dal sussurro fuori campo del protagonista e canzoni urlate sul palco di locali semi-deserti, il film parte da lontano, dall'origine dell'amore (titolo, questo, della canzone più bella della clamorosa colonna sonora) come illustrata da Aristofane nel Simposio di Platone, quando gli umani tondi e doppi vennero puniti per la loro presunzione dal fulmine di Zeus che li divise in due, destinandoli all'eterna ricerca dell'altra metà, con la quale completarsi. Identità sessuale ed amore sono ciò che cerca Hedwig, mentre canta la sua storia incorniciata da grosse parrucche bionde. La canta al suo sparuto pubblico e a noi, con lo sguardo fisso in macchina, ripercorrendo gli anni difficili che l'hanno segnata, dall'abbandono in terra americana del soldatone d'ebano, che le preferisce un ragazzino più giovane, alla passione per Tommy (interpretato da un Michael Pitt ancora acerbo, al suo primo ruolo importante dopo le apparizioni in Dawson's creek e Scoprendo Forrester), un adolescente che la fa vivere, per pochi istanti, in una nuova, dolce, illusione, prima di frantumarla in mille pezzi, scappando via da lei e rubandole quelle canzoni che lo tramuteranno in una star idolatrata dai concerti sold out.

Più che la storia, ciò che colpisce di Hedwig è il percorso emotivo del protagonista, così carismatico e rabbioso (anche per via di quell'inch che gli ha lasciato in eredità, tra le gambe, un'operazione poco riuscita) sul palco, quanto fragile e smarrito nel privato, nascosto dietro quello spietato egoismo di chi vive nella perenne paura di essere abbandonato nuovamente. Derubato di tutto (dell'innocenza dal padre, del sesso dal sergente, del successo da Tommy) Hedwig dovrà fare i conti con sé stesso/a prima di conoscere la libertà, salutata da calde lacrime a bagnare un corpo che può finalmente spogliarsi di tutto il superfluo e fare a meno della parrucca. John Cameron Mitchell ha portato questo personaggio sui palchi dei teatri off-Broadway per due anni prima di consegnarlo al grande schermo, e non stupisce, quindi, che la sua interpretazione abbia del miracoloso. Gli occhi spalancati, la piena delle emozioni sul viso, le cicatrici sull'anima: John è Hedwig, la sua voce è penetrante quando narra e travolgente quando canta, dal vivo (!), tutte le canzoni, accompagnato dagli Angry inch, il gruppo (che suona invece in playback) che ha tra i suoi componenti lo stesso Stephen Trask alla chitarra.

Hedwig diverte ed emoziona, rabbuia ed illumina, inchiodando lo spettatore allo schermo grazie a monologhi taglienti, formidabili dialoghi e, soprattutto, canzoni francamente straordinarie, sospese tra l'energia trascinante del glitter rock e del post-punk e indimenticabili ballate torch. Ottima la prima regia di Mitchell, ricca di fantasiose trovate: il giro di macchina sul volto di Hedwig nel forno, l'esibizione mono-spettatrice sulla collina, i gummy bear che appannano col loro respiro il pacchetto in cui sono ammassati, la scia di dolci sulle macerie, mentre dall'altra parte del muro si ergono gli archi del marchio di McDonald's, lo stage diving onirico, la roulotte-palcoscenico, la sequenza karaoke, e così via. Qualcuno potrà accusare il film di essere eccessivamente didascalico, dell'invadenza della voce fuori campo o della mancata attenzione riservata ai personaggi di contorno, ma tutto è funzionale allo stabilirsi di un'empatia che immerga totalmente lo spettatore nel complesso emozionale dell'opera che è Hedwig. Grande attenzione è riservata allo sguardo, con l'occhio sempre in primo piano, in un gioco di continui rimandi e ammiccanti occhiate tra protagonista e pubblico, chiamato in prima persona a completare un film volutamente incompleto.

Non è difficile entrare nello spirito di Hedwig ed innamorarsene. Al di là di tutte le esagerazioni che ogni manifesto queer porta sempre con sé, qui si parla il linguaggio semplice delle emozioni, quelle che accompagnano la ricerca di sé stessi e dell'amore, della completezza. Hedwig è l'affresco di un'epoca "di mezzo", un lamento toccante, spesso esilarante, ma mai patetico, che da voce a qualsiasi anima impegnata in questa tormentosa ricerca, destinata forse al disincanto, eppure inarrestabile. Con Hedwig, il sogno del cinema torna a vestirsi della magia della musica, che ha sempre una portata universale, ma quando è di questo livello sa già che sarà accolta nel cuore rovente dell'eternità.