John Carpenter, l'alfiere dei generi

Fautore di un cinema orgogliosamente "popolare", Carpenter ha spesso rinunciato ai soldi (e alle imposizioni) delle major, preferendo lavorare a piccole produzioni indipendenti per perseguire la sua personale idea di cinema.

Se esiste, nel panorama del cinema fantastico americano, un regista che può essere a ragione definito "ribelle", questo è proprio John Carpenter. Fautore di un cinema orgogliosamente "popolare", nel senso migliore del termine, innamorato tanto della fantascienza anni '50 (i film di Jack Arnold su tutti), quanto dei western di John Ford e Howard Hawks (da lui citati a più riprese nei suoi film), Carpenter ha spesso rinunciato ai soldi (e alle imposizioni) delle major, preferendo lavorare a piccole produzioni indipendenti, a basso budget, per perseguire la sua personale idea di cinema. Un'idea basata su un radicale pessimismo, e su una spietata critica alla società e al modo di vivere americani, da esprimere attraverso il fantastico.

C'è ben poca speranza nel futuro, nei film di Carpenter, così come è molto scarsa la fiducia nel genere umano; c'è invece l'amara constatazione di vivere in una società che tende a distruggere sé stessa, edificata dai forti a scapito dei più deboli, dei reietti e degli emarginati. Così, gli (anti)eroi che si muovono in questo fosco universo non agiscono in base a codici morali, ma sono mossi dal puro istinto di sopravvivenza e da una spinta nichilistica che li porta ad un totale rifiuto delle istituzioni umane: così il personaggio forse più noto del regista, lo Jena Pliskken di 1997: Fuga da New York (1981) e del suo sequel (Fuga da Los Angeles, 1996), accetta le missioni che gli vengono assegnate al solo scopo di riacquistare la libertà, ma, quando arriva il momento, si fa beffe di coloro che sta servendo; così il Mcready di La Cosa (1982, remake di La cosa da un altro mondo di Cristian Niby e Howard Hawks), sempre interpretato da Kurt Russel, è freddo e spietato anche con i suoi compagni, al fine di fronteggiare la minaccia dell'alieno; così la squadra di cacciatori di Vampires (1998) è composta da spietati mercenari che dovranno sterminare un'altra razza. Questi eroi maledetti sono chiaramente debitori di quelli creati da un altro grande "ribelle" hollywoodiano, quel Sam Peckinpah che con i suoi film ha segnato il crepuscolo del genere western e la fine del mito della frontiera. Ancora il western come punto di riferimento, quindi, come genere che, pur non essendo mai stato affrontato direttamente dal regista, attraversa in modo obliquo tutta la sua filmografia: ma se i già citati Ford e Hawks possono essere visti come ispiratori per lo stile visivo di molte sue opere, per il particolare taglio dato alla regia (due esempi su tutti, Distretto 13: le brigate della morte, del 1976, e Fantasmi da Marte, del 2001, entrambi debitori nella trama come nello stile al classico Un dollaro d'onore di Hawks), è sicuramente a Peckinpah che il regista deve di più per l'"anima" delle sue storie, per il nichilismo in esse contenuto.

Anche negli horror (genere con cui il regista è stato spesso, limitativamente, identificato), le tematiche sociali affrontate da Carpenter sono evidenti: se in Halloween - La notte delle streghe (1978), il suo primo grande successo, il tema della cittadina americana come comunità chiusa, perbenista, e quindi del tutto incapace di fronteggiare la minaccia incombente, veniva solo accennato, è nel successivo Fog (1979) che questi temi si fanno espliciti e dirompenti: Antonio Bay è una comunità fondata dai ladri e dagli assassini, e la ricorrenza per la nascita della città che è al centro del film è in realtà la celebrazione di un massacro. Le analogie con la storia degli indiani d'America (al cui aspetto Carpenter si ispirerà anche per il look degli alieni in Fantasmi da Marte) e con la nascita degli stessi Stati Uniti, sono piuttosto evidenti. In La Cosa la minaccia viene invece dallo spazio, ma è nell'uomo che (fisicamente) si installa, ed è dentro di esso che (metaforicamente) germoglia, facendo leva sull'innata mancanza di fiducia dell'essere umano verso i propri simili; ne Il signore del male (1987) è il tabù della religione ad essere affrontato e smontato, ipotizzando la secolare perpetrazione di una grande menzogna da parte delle autorità religiose ai danni dell'umanità; ne Il seme della follia (1995), infine, forse il capolavoro del regista, l'apocalisse è ormai prossima, ed arriva sotto forma di uno scrittore-profeta che porterà il genere umano alla follia e infine alla definitiva distruzione.
Il film in cui l'attacco alle istituzioni statunitensi e a un certo stile di vita americano è più evidente è tuttavia una pellicola di fantascienza: in Essi vivono (1988) Carpenter omaggia tanto i soliti Ford e Hawks, quanto George A. Romero (altro regista a lui affine per stile e tematiche), quanto soprattutto il Don Siegel de L'invasione degli ultracorpi: il tutto per una feroce satira del consumismo e del liberismo sfrenato tipici del periodo reaganiano, sotto forma di b-movie di fantascienza. Temi, questi, che ritroviamo anche in film apparentemente più "leggeri" come la commedia Avventure di un uomo invisibile (1992), in cui il protagonista è uno yuppie ossessionato dal lavoro, senza una propria vita sociale, che si rende conto di quanto sia importante, realmente, "esserci" solo dopo essere diventato fisicamente invisibile; o come il gustosissimo Grosso guaio a Chinatown (1986), il cui protagonista (di nuovo Kurt Russel) è il compendio di tutte le caratteristiche del rozzo americano medio, canottiera, linguaggio colorito e pasti a base di micidiali hot-dog: lui non lo dice mai, ma non fatichiamo a immaginare questo personaggio come un convinto elettore del partito repubblicano.

Solo in un paio di occasioni, nella sua lunga carriera, Carpenter è sceso a patti con le major hollywoodiane, accettando di dirigere film in cui evidentemente era lui il primo a non credere: stiamo parlando di Christine, la macchina infernale (1983), tratto da un romanzo di Stephen King, la cui storia non era priva di potenzialità, ma che si è trasformato purtroppo in un horror piuttosto di routine; e di Starman (1984), favola fantascientifica di chiara derivazione spielberghiana, poco affine per contenuti allo spirito che ha sempre animato il regista.
Tuttavia, incidenti di percorso a parte, siamo di fronte a un autore coerente come pochi, uno dei pochissimi, nel suo ambito, di cui si possa dire che ha sempre mantenuto una poetica, una precisa idea di cinema pur nei tanti generi affrontati. Non è poco, questo, in tempi di globalizzazione, economica, culturale e cinematografica. Non ci resta a questo punto che aspettare la sua prossima visione, qualunque essa sia: sapendo bene che anche questa volta sarà facile (anche se poco consolatorio) ritrovarvisi.