Joel ed Ethan Coen: due fratelli alla conquista dell'indie

Hanno conquistato prima l'America e poi il resto del mondo grazie ad uno stile personale ed originalissimo, a una passione per i classici hollywoodiani che sfiora l'ossessione e a un cinema rarefatto, intellettuale e citazionista.

Originari di Minneapolis, nel Minnesota, i fratelli Joel Coen e Ethan Coen rappresentano ormai uno dei più solidi e duraturi sodalizi familiari della settima arte. Se vogliamo trovare una possibile equivalenza nel panorama italiano ci vengono subito in mente i fratelli Taviani; tuttavia la premiata ditta Coen adotta una divisione dei compiti ben più netta rispetto ai grandi maestri toscani: Joel Coen, maggiore di tre anni, firma la regia di tutti i film, Ethan la produzione, anche se è noto che i due scrivono insieme i film ed insieme si dedicano anche al montaggio.

Appartenenti alla media borghesia ebrea, antidivi dall'aria intellettuale e dal carattere schivo, fin dal loro primo lavoro autoprodotto con i 550 mila dollari racimolati fortunosamente tra i conoscenti, i Coen hanno conquistato prima l'America e poi il resto del mondo grazie ad uno stile personale ed originalissimo, ad una passione per i classici hollywoodiani che sfiora l'ossessione e ad un cinema rarefatto, intellettuale e citazionista. Da buoni intellettuali ebrei alieni al successo commerciale hollywoodiano (Woody Allen docet) i due terribili fratellini si affacciano sul panorama produttivo degli anni '80 come un duo di stravaganti cineasti d'ingegno dai budget bassi, rigorosamente indipendenti ed indirizzati verso il cosiddetto cinema "di nicchia" prediletto da certi critici. La consacrazione internazionale arriva nel 1991 con Barton Fink, commedia satirico-grottesca sulla Hollywood anni '40, che, presente in gara al festival di Cannes, fa innamorare il presidente della giuria di turno, Roman Polanski, al punto che il film non solo vince la Palma d'oro (cosa alquanto rara per una commedia), ma si vede assegnare anche il premio per la miglior regia a Joel Coen e quello per il miglior attore al superlativo John Turturro, attore feticcio dei due fratelli ebrei.

L'interesse dei Coen sembra soffermarsi sempre più spesso su un cinema di maniera, che oscilla tra surrealismo simbolico e grottesco ed iperrealismo estremo. L'attenzione dei due fratelli si concentra sulla magia del passato hollywoodiano, sulla grande stagione dello studio system, del cinema dei generi chiaramente codificati e dei divi che illuminavano con la propria presenza ogni pellicola, delle eleganti scaramucce sessuali e del disimpegno sociale. Basta passare rapidamente in rassegna le pellicole scritte e dirette dai Coen per individuare le "ossessioni" di riferimento che vengono riproposte attraverso una geniale rielaborazione che infonde loro nuova linfa vitale. Basti pensare al numero di pellicole ambientate negli anni '30-'40: da Crocevia della morte, elegantissimo gangster movie ambientato nel 1929, epoca gloriosa delle stragi di San Valentino e del proibizionismo a Fratello, dove sei?, rocambolesca fuga di tre detenuti attraverso il Profondo Sud degli States ancora una volta con la Grande Depressione sullo sfondo, da Mister Hula Hoop, bizzarro tentativo di rifare una screwball comedy degli anni '30 a cavallo tra Capra ed Hawks allo stesso Barton Fink, pungente satira sulla Hollywood degli anni '40 che sprofonda progressivamente nel grottesco, passando per L'uomo che non c'era, ancora un classico incubo sonnambolico-noir girato in un elegantissimo e coraggioso bianco e nero con taglio espressionista, senza scordare che lo stesso Prima ti sposo, poi ti rovino altro non è se non un moderno rifacimento delle commedie sulla guerra tra i sessi con la coppia George Clooney-Catherine Zeta-Jones che si ispira apertamente a quella ben più consolidata Spencer Tracy-Katharine Hepburn.

Nonostante l'indiscussa genialità del duo, talvolta anche i Coen sono stati oggetto di critiche di quella stampa che storce il naso di fronte all'autocompiacimento metariflessivo di un certo cinema che predilige se stesso come oggetto del proprio mostrare piuttosto che la realtà che ci circonda. Le principali accuse riguardano, appunto, il disimpegno, una certa freddezza nella confezione dell'opera ed un eccesso di manierismo. Tentare una linea di difesa di fronte ad accuse di questo tipo sarebbe quasi impossibile: se è totalmente inutile discutere sul disimpegno, scelta personale e lecita (si può accusare qualcuno di non essere un Ken Loach o uno Spike Lee?), sarebbe altrettanto impossibile non ammettere che effettivamente il cinema dei Coen si caratterizza per una freddezza che trapela soprattutto dalle opere maggiormente legate al cinema di genere. Difficilmente lo spettatore si affezionerà agli stralunati gaglioffi omerici in fuga verso casa, al drammaturgo con la faccia da topo o alla saccente giornalista interpretata da Jennifer Jason Leigh in Mister Hula Hoop, l'intento degli autori non è infatti quello di creare personaggi dal cuore d'oro nei quali immedesimarsi. I Coen, seppur con i dovuti distinguo, appartengono a quella schiera di registi postmoderni (che annovera al suo interno i vari Tim Burton e Quentin Tarantino) che vedono nel cinema del passato una miniera a cui attingere a piene mani e, nello stesso tempo, un mausoleo da decostruire e rielaborare liberamente con la complicità di un pubblico che non è più quello che ammira a bocca aperta i mirabolanti prodotti della fabbrica dei sogni, ma che, figlio dello straniamento di matrice brechtiana, si fa complice e spalla nel gioco di decostruzione-ricostruzione. Ecco allora le citazioni e le strizzate d'occhio sparse a piene mani scena dopo scena, ecco l'esplicita denuncia dei modelli di riferimento (Capra, Preston Sturges e Hawks per Mister Hula Hoop), ecco la scelta di impossessarsi dei generi classici: Sangue facile ('84), film d'esordio, è una parodia del genere noir/hard-boiled; Crocevia della morte ('90) un omaggio ai film di gangster, Barton Fink ('91) al naturalismo anni '40, Mister Hula Hoop rievoca il filone buonista della screwball comedy di É arrivata la felicità e Mister Smith va a Washington; nel 2001 con L'uomo che non c'era si ritorna al noir più classico. Questo solo per limitarsi ad alcuni lavori, ma l'elenco di somiglianze ed omaggi è molto, molto più lungo.

Cinema delle citazioni colte e metadiscorsive dunque, ma anche cinema della denuncia e dello svelamento dell'artificio. Prendiamo ancora Mister Hula Hoop, prodotto esemplare del manierismo coeniano: il film ricostruisce fin dalla sequenza d'apertura (un lungo travelling aereo) una Manhattan riconoscibilissima, ma completamente finta. Un movimento di macchina altrettanto violento e dichiaratamente denunciato zooma su un davanzale su cui si trova l'aspirante suicida Norville Barnes/Tim Robbins dopodiché con un "salto" indietro nel tempo la narrazione ci guida nel colmare le lacune sulle sventure dell'ingenuo protagonista. C'è assai poco di realistico in questa manipolazione temporale, nei sofisticati effetti ottici apertamente dichiarati o nei grattacieli in miniatura filmati in modo da apparire giganteschi sormontati dall'enorme orologio che rievoca la langhiana Metropolis.

I Coen aderiscono ad una visione postmoderna del cinema inteso come luogo privilegiato dell'illusione dove da una parte vi è il desiderio di creare un personalissimo mondo narrativo costellato di elementi memoriali appartenenti all'età d'oro di Hollywood (il background culturale al quale i due autori del Minnesota denunciano l'appartenenza), dall'altra il narratore interno al testo non perde occasione per riprendere in mano il discorso evitando che lo spettatore si adagi nell'illusione cinematografica e mantenendo la sua attenzione sempre desta, infatti un cinema così ampiamente formalista ed intellettuale richiede quantomeno uno spettatore "complice" e consapevole. I film dei Coen denunciano esplicitamente la natura finzionale del cinema: la macchina da presa ci presenta uno spazio svelandoci poi che esso era finto, le immagini mescolano presente e passato o addirittura s'infittiscono i livelli della narrazione (basti pensare alle esilaranti sequenze oniriche de Il grande Lebowski); talvolta sono i personaggi ad essere talmente assurdi da non sembrare veri, altre volte è la storia alla quale manca una struttura logica sostituita da un'assortita galleria di personaggi e gags, talvolta irresistibili, che ci offrono una delle più intelligenti e divertenti dimostrazioni di cinema concettuale. E' questa la ricchezza del cinema dei fratelli Coen, è necessario ancora parlare di freddezza? Forse sì, perché se la maggior parte dei lavori del duo creativo è ricoperta da una patina di distaccata eleganza intellettuale e cinefila, il vero cuore dei due autori emerge proprio in quelle pellicole dove il calore del racconto va a fondersi con l'umorismo nero: nel folle Arizona Junior, pazza commedia che trasuda energia, inventiva e graffiante umorismo girata per lo più con la macchina da presa posta ad altezza di neonato e caratterizzata da una virtuosa mescolanza dei generi all'insegna del grottesco e dell'eccesso; per non parlare della girandola onirica in cui sono immersi i protagonisti de Il grande Lebowski, improbabile parodia noir ambientata nella Los Angeles contemporanea che con Raymond Chandler ed il suo Il grande sonno condivide principalmente l'impossibilità di riassumere logicamente il folle succedersi di eventi.

Ma tra tutte le opere dei Coen quella che maggiormente colpisce il pubblico al cuore, e che la critica ha eletto capolavoro assoluto dei due fratelli, è Fargo (anch'essa premiata a Cannes per la miglior regia nel 1996), il film più misurato e realistico, il più classico, almeno nella forma, ma anche il più vero, l'opera che, pur essendo impregnata di quell'umorismo macabro che è il marchio di fabbrica dei due fratelli, ci offre uno spaccato di quel mondo al quale essi appartengono e nel quale hanno trascorso l'infanzia, quella provincia sterminata dominata dal candore della neve e dal sangue dei cadaveri, dai tocchi di kitch e dalla semplicità dei rapporti umani, dal folclore locale e dalla banalità del quotidiano, con l'enorme statua di Paul Bunyan silente testimone del progressivo scivolamento nella follia che si genera all'interno della rassicurante quotidianità della periferia.