Il nuovo a Torino

C'è stato del nuovo a Torino 2006? Se per nuovo si intende il cinema prodotto, diretto e distribuito nel contemporaneo, ovvio che ce ne sia stato. Ma se il termine vale come categoria per interpretare il cinema di oggi, emergono inquietanti questioni.

Selezionare è la parola d'ordine a un festival. E Torino è e resta un festival dove c'è la possibilità di godersi il cinema senza particolari ansie; dove si pensa a vedere film piuttosto che a rincorrere l'attore o il regista svogliato di turno per le domande di rito. Senza dover operare scelte opprimenti capita allora di perdersi in gustose retrospettive o di riscoprire l'intera filmografia di un regista di un'importanza capitale nel transito tra la vecchia e la nuova Hollywood come Robert Aldrich, di cui avremo modo di parlare in separata sede. Perché il cinema non si alimenta solo con il presente ma anche ri-leggendo e ri-vedendo il passato in una nuova ottica. Aldrich, Chabrol, le scorribande sex-exploitation ossimoriche di Joe Sarno e il cinema militante di Joaquin Jordà hanno rappresentato il sostanzioso corpus delle retrospettive dell'edizione appena conclusa.

E il nuovo? C'è stato del nuovo a Torino? Se per nuovo si intende il cinema prodotto, diretto e distribuito nel contemporaneo, ovvio che ce ne sia stato. Ma se il termine vale come categoria per interpretare il cinema di oggi, attraverso lo sguardo di un festival, emergono inquietanti questioni. In prima istanza il nuovo comprende ormai indissolubilmente la dimensione televisiva. Niente di male, se non fosse che i Masters of Horror stagione 2006, o almeno la selezione torinese (ne abbiamo già parlato qui), si sono dimostrati quanto di più deludente si potesse supporre e il Broken Trail di Walter Hill è molto lontano dall'essere quel grande film acclamato un po' da tutti. Cinema televisivo - e non perché è stato prodotto per la televisione e girato in digitale - che si aggrappa alle mandrie di cavalli, alla splendida faccia e ai gesti di Robert Duvall e naturalmente ai paesaggi e agli orizzonti, per celare un certo anacronismo perfino retorico. Non è di un film del genere che si ha bisogno attualmente e forse Hill, che di grandi film non ne ha girati pochi, dovrebbe guardarsi Le tre sepolture e soprattutto The Proposition per capire dove va il western nel terzo millennio.

Il concorso: di sicuro non è mai stato il piatto forte della selezione torinese, motivo per cui il preventivato colpo mortale inflitto dalla Festa del cinema di Roma puzza di giustificazionismo preventivo anche un po' corporativo e ha il fiato corto. Diciamo piuttosto che, materialmente impossibilitato all'inserimento di titoli altisonanti, un festival come Torino si vede costretto a orientare lo sguardo verso l'altro cinematografico; in quel magma dispersivo (ma volendo affascinante) in cui capita a volte di pescare piccoli gioielli, ma più spesso tremende bufale. Se gli esiti sono a volte fallimentari la responsabilità va divisa tra la strutturale mancanza di film memorabili e alcune evidenti sviste. Tra queste di certo c'è quella rappresentata da The Guatemalan Handshake di Todd Rohal che satura definitivamente un'estetica indie irritante e pretestuosa, in un film che fa finta di dire belle cose in una forma volutamente caotica e anarcoide, ma che sostanzialmente non va da nessuna parte e non scuote neanche il più emotivo dei cuori, tranne forse quello di chi gli ha tributato il premio alla regia. E anarchia è la parola giusta anche per interpretare il cinema giapponese che è tutto un movimento di contrasti spesso molto eccitanti, ma che nella scelta di The Pavillion Salamandre dà più l'idea di un caos riempitivo vacuo e stancante. A riempire il ricco panorama asiatico il volenteroso documentario filippino sull'alfabetizzazione Manoro e gli estenuanti Stories from the North dalla Tailandia e il cinese Pleasures of Ordinary. E' una produzione libano-francese, insieme al vincitore Honor de Cavalleria, la cosa più interessante vista nella sezione: Le Dernier Homme di Ghassan Salhab fa uso dei generi (thriller e horror) per raccontare con piglio autoriale e una curata composizione dell'immagine, il travaglio economico-sociale della moderna Libia, attraverso il nero percorso di un medico che si scopre vampiro.

Ad affiancare i titoli in competizione, per fortuna, c'è la sempre gustosa selezione del fuori concorso a riequilibrare la situazione, per quanto sia fatta tutta di anteprime a ridosso dell'uscita nelle sale e ripescaggi da Cannes e Berlino. Ciò non toglie che vedere ma anche rivedere film del calibro di Election 2 o l'ultimo (già non più ultimo) Miike di Big Bang Love, Juvenile A faccia decisamente piacere. Lo stesso dicasi per il bel Old Joy, mentre il Bug di Friedkin alla seconda visione convince meno e l'ultimo Christopher Guest di For Your Consideration graffia ma non appassiona quanto era lecito aspettarsi. Ma in attesa del nuovo, godersi gli Aldrich non è cosa di poco conto.