Recensione La bicicletta verde (2012)

Presentato nella sezione Orizzonti della 69esima edizione del Festival di Venezia, Wadjda è l'esordio nel lungometraggio della regista saudita Haifaa Al Mansour, prima pellicola interamente girata nel regno arabo.

Volevo una bicicletta

Wadjda ha 10 anni, un carattere curioso e intraprendente, e molti sogni. Troppi, probabilmente, per una ragazzina nata e cresciuta in un sobborgo di Riyad, capitale dell'Arabia Saudita. Insofferente al velo e a tutte le limitazioni a cui le donne saudite sono costantemente sottoposte, Wadjda si mette spesso nei guai a scuola, è mal vista dalla sua insegnante, ed è fonte di costante preoccupazione per sua madre, già presa dal tentativo di dissuadere suo marito dall'intento di prendere una seconda moglie. Un giorno, una discussione con l'amico del cuore Abdullah provoca nella ragazzina un desiderio improvviso e impellente: Wadjda vuole procurarsi una bicicletta, per poter sfidare e battere l'amico, che ne possiede una. Ma il costo di una bici è assolutamente proibitivo per lei, e inoltre l'idea stessa di una ragazzina su un mezzo del genere rappresenta una sfida totale per le convenzioni. Ma non sono questi gli impedimenti che potranno bloccare l'intraprendenza e la tenacia di Wadjda, più che mai decisa a urlare il suo diritto a una vita piena e alla realizzazione dei suoi sogni.


Presentato nella sezione Orizzonti della 69esima edizione del Festival di Venezia, La bicicletta verde rappresenta un'opera importante in molti sensi. Intanto, quella di Haifaa Al-Mansour è la prima pellicola girata interamente nel regno saudita, malgrado il film si avvalga anche dell'apporto di capitali e maestranze tedesche; inoltre, si tratta dell'esordio nel lungometraggio di fiction da parte della regista, già nota per alcuni corti e per un documentario discusso nel suo paese, ma apprezzatissimo a livello internazionale, come Women Without Shadows. Quello che salta subito all'occhio del film di Al Mansour, tuttavia, è il suo tono originale e abbastanza insolito per una produzione araba appartenente (genericamente) al filone 'di denuncia': la storia di Wadjda, infatti, pur nel suo realismo, resta il ritratto di una ragazzina che sogna e cerca, grazie a un'inesausta fiducia nei suoi mezzi, di trovare il suo posto in una società che le va stretta. La carta vincente del film è di fatto l'equilibrio tra una narrazione che non fa sconti a un sistema che resta profondamente misogino e patriarcale, e una leggerezza nel tono che riesce a cogliere nell'umanità dei personaggi una speranza di evoluzione e cambiamento.

La bellissima interpretazione dell'esordiente Waad Mohammed, sguardo vispo ed ironico, occhi aperti e sempre curiosi sul mondo, dona al film un importante valore aggiunto; la giovane protagonista incarna al meglio questo personaggio nei cui occhi, e nella cui testardaggine, la sceneggiatura sembra individuare una reale, e non utopica, speranza di cambiamento per un'intera società. Speranza che si scontra con una struttura sociale in bilico tra un'interpretazione formalmente 'moderata' dei precetti islamici e una sostanziale chiusura al cambiamento, risultato di secolari e stratificate usanze, che si sono radicate ben al di là degli insegnamenti di una religione. Una chiusura incarnata dal personaggio, duro e meschino, dell'insegnante, che esprime comunque un "non detto" di frustrazione e privazioni che non può non suscitare pena; e che fa sentire la sua influenza anche sulla madre di Wadjda, donna che comunque, nel corso del film, subirà un'evoluzione che la porterà a riacquistare una dignità e una capacità di autodeterminazione.

In tutto questo, l'oggetto bicicletta rappresenta un emblema, il doppio simbolo di un'infanzia che Wadjda è ben decisa a non farsi negare, e più in generale di una speranza di trasformazione, sfida scandalosa a una società che vuole negare alla donna persino il più basilare diritto alla visibilità. Un oggetto-simbolo che si contrappone a quello desiderato dalla madre, il vestito con la quale quest'ultima spera di riconquistare un uomo nei confronti del quale mantiene una subalternità, che il semplice possesso dell'oggetto non farebbe che ribadire. Attraverso la bici, inoltre, Wadjda punta a raggiungere quella "parità", quella a cui lei realmente aspira, nei confronti del suo amico Abdullah; parità da quest'ultimo non certo avversata, ma al contrario incoraggiata e stimolata. Dal nucleo rappresentato dai due ragazzini, sembra dirci la regista, può passare l'inizio di un cambiamento: o forse, semplicemente, una semplice ma concreta speranza in questo senso. Senza illusioni o facili ottimismi, ma con la concreta consapevolezza di un percorso da fare, e della necessità di iniziarlo.

Movieplayer.it

3.0/5