Toni Trupia racconta gli Itaker di Germania

A metà strada tra il racconto sociale e quello intimista, il regista e i suoi interpreti Tiziano Talarico, Francesco Scianna e Michele Placido definiscono il ritratto degli immigrati italiani degli anni Sessanta, eternamente divisi tra coraggio e nostalgia, speranze e disillusioni

Toni Trupia non sa esattamente cosa vuol dire essere un Itaker, ossia un italianaccio in terra d'altri, ma comprende la spinta che porta una persona a lasciare la propria casa pur di realizzare un sogno o cercare altrove delle condizioni di vita migliori. Nel suo caso, a sedurlo è stato proprio il miraggio del cinema e la volontà di firmare, un giorno, il suo primo lungometraggio. Per questo motivo l'ex ragazzino di Agrigento lascia la sua Sicilia a soli diciotto anni e si dirige verso Roma e il Centro Sperimentale. Qui, dopo alcuni lavori scolastici e il diploma, l'occasione non tarda a presentarsi; il film è Romanzo Criminale e il regista che lo sceglie come aiuto è Michele Placido. Da quel momento Trupia inizia con l'attore un rapporto di fiducia e rispetto, che lo porta a firmare la sceneggiatura di Vallanzasca - Gli angeli del male e a sceglierlo come interprete e co-sceneggiatore del suo Itaker - Vietato agli italiani, distribuito da Istituto Luce dal 29 novembre. Seconda pellicola dopo L'uomo giusto, il film racconta le vicende di Pietro, un ragazzino di nove anni che, rimasto orfano di madre, arriva in Germania alla ricerca di un padre immigrato da molti anni. Ad accompagnarlo é Benito che, dopo otto mesi passati in carcere, utilizza il bambino come mezzo per ottenere nuovamente il passaporto e tornare a Bochum. Qui, ad attenderli, c'é una vita in fabbrica e la collaborazione poco pulita con Pantano, capo bastone del racket degli immigrati. In questo modo il regista e i suoi interpreti, Tiziano Talarico, Francesco Scianna e Michele Placido, definiscono il ritratto sociale e privato di un italiano datato 1960, eternamente diviso tra coraggio e nostalgia, speranze e disillusioni.

Lei è molto giovane e non ha certo avuto la possibilità di vivere e conoscere la condizione degli italiani immigrati in Germania negli anni Sessanta. Cosa l'ha spinta, dunque, verso una storia dal sapore così antico e che ripesca nella memoria del nostro paese? Toni Trupia: la suggestione iniziale viene da Michele Placido. Lui aveva carpito questo tipo di storia da un signore durante un viaggio in treno e mi ha consigliato di rifletterci su. All'inizio sono entrato in crisi perché sentivo che non era il momento adatto e nei miei progetti non avevo considerato la possibilità di guardare ad una storia passata. Inoltre, mi terrorizzava l'idea di lavorare con dei bambini. Poi ho trovato le motivazioni giuste proprio nelle vicende personali della mia famiglia. Alcuni parenti si erano trasferiti in Belgio e durante le nostre visite, insieme al benessere raggiunto, ricordo anche l'isolamento in cui vivevano. Nonostante questo, però, non avevo capito ancora dove andare a parare con questo racconto. Tutto mi é stato più chiaro solo quando, al tema dell'immigrazione, ho unito anche quello di una paternità da ricercare. In quel momento ho sentito che la materia mi apparteneva. Poi, durante la scrittura e la preparazione, sono riuscito ad andare molto più a fondo nel soggetto, scoprendo quanto la seconda migrazione degli italiani sia stata poco trattata dalla storia, a differenza di quella degli anni venti mitizzata da cinema e letteratura. Il fatto é che erano cambiate le motivazioni. Se alla fine dell'Ottocento si affrontava il distacco dalla propria terra per la sopravvivenza, negli anni sessanta si partiva per essere all'altezza di uno status economico imposto dal boom.

L'ambiente della fabbrica, come le baracche in cui vivono gli operai, hanno un aspetto in qualche modo onirico, fantastico. Come avete ricostruito l'ambientazione? Toni Trupia: In realtà avevamo trovato una fabbrica abbastanza evocativa, ma sentivo che non era sufficiente. Prima di ogni altra cosa volevo rendere giustizia allo sguardo di un bambino, quindi ho pensato che fosse necessario trasfigurare l'ambiente attraverso un lavoro di effetti in post produzione. Devo dire che, grazie anche ad una troupe eccezionale, questo film segna il mio ingresso nel cinema professionale.

Dunque, possiamo dire che usa lo sguardo del bambino per comprendere un mondo estraneo anche a lei? Toni Trupia: Si, è vero. Avevo bisogno di arrivare al racconto di un epoca e ci sono riuscito preparandomi molto attraverso riferimenti letterari e cinematografici, come ad esempio il film Pane e Cioccolata. Però, é lo sguardo del piccolo Pietro che mi permette di entrare in questo mondo e di scoprirlo con lui per la prima volta.

In questa storia il tema centrale é sicuramente una paternità delegata ed un figlio che sceglie di essere tale. Questo vuol dire che diventando un immigrante una persona sceglie autonomamente come farsi uomo? Toni Trupia: Il mio percorso si e concentrato soprattutto sulla scoperta dei sentimenti di questi personaggi. Tutto ruota intorno alla paternità, dal concetto astratto di patria al dover fare i conti con una mancanza genitoriale fisica e affettiva. Poi ho scoperto che l'identità famigliare ha poco a che fare con i legami di sangue, ma con i sentimenti che riusciamo a scambiare nell'arco della nostra vita. Per questo motivo, ho deciso di cambiare il finale all'ultimo momento chiudendo su un immagine e un percorso aperto a qualsiasi possibilità.

Nei panni di questo padre putativo é stato scelto Francesco Scianna, obbligato per l'occasione a mettere da parte le sue origini siciliane e ad acquisire il dialetto napoletano. Come é stato costruito il ruolo? Michele Placido: Sul problema dell'accento napoletano abbiamo discusso molto. A Francesco avevamo proposto di farlo affiancare da un attore con cui lavorare sulla cadenza, ma lui si é ostinato a voler andare a Napoli. Così, completamente a sue spese, ha affrontato il viaggio ed un mese e mezzo di permanenza in città.
Francesco Scianna: Quando Michele mi ha chiamato per offrirmi la parte ho accettato senza nemmeno leggere il copione, come avevo fatto per Vallanzasca. Dopo, quando ho avuto la sceneggiatura, ho capito di non aver sbagliato perché in quelle pagine c'erano arte, cuore e passione. Il mio Benito è un personaggio meraviglioso perché vive il grande conflitto di chi desidera un'occasione migliore. Sono riuscito a costruire il suo background culturale e linguistico grazie all'incontro con dei magliari veri e al sostegno di alcuni attori partenopei. L'esperienza é stata importante ed oggi, per la prima volta da quando faccio questo mestiere, sento di aver iniziato veramente il mio percorso di attore.
Toni Trupia: Il lavoro con gli attori é stata la vera scoperta di questo film. Per la prima volta ho avuto la possibilità di conoscere la figura dell'attore come essere straordinariamente complesso. In questo caso specifico, poi, gli interpreti sono stati anche dei coautori. Con loro abbiamo passato un'estate intera a sviscerare la materia ed ognuno ha portato un bagaglio personale.

Non è una scelta rischiosa far uscire un prodotto così di nicchia durante un periodo di grande attività cinematografica, senza essere sostenuto dal passaggio in un festival? Michele Placido: Il film era pronto già a settembre, ma é stato rifiutato da tutti. Il mio amico Marco Muller lo ha considerato troppo classico, mentre ad Amelio non è piaciuto il bambino. Da parte mia, odio far telefonate per assicurarmi che i selezionatori visionino un prodotto, ma sono sicuro che in molti non lo hanno nemmeno visto. E questo mi dispiace. L'unico segnale lo abbiamo ricevuto dal festival di Berlino che, in occasione della prossima edizione e dei sessant'anni dell'immigrazione italiana, probabilmente ci darà uno spazio. Comunque, al di là di questo, da febbraio vorrei portare il film in tour. Probabilmente questo non porterà nulla dal punto di vista economico, ma farà in modo che il film sia visto dal maggior numero di persone.