Recensione Womb (2010)

L'interesse del regista Benedek Fliegauf si concentra unicamente sul piano emotivo della storia. Gli spazi immensi, le praterie incontaminate, le spiagge deserte sono teatro di una relazione sentimentale che prosegue anche dopo la morte, la presenza fisica degli esseri umani è ridotta all'osso e il passo lento della narrazione viene reso attraverso l'uso insistito di campi lunghissimi, sospensioni e silenzi.

Tommy, never let me go

L'amore eterno e la vita oltre la morte sono aspirazioni appartenenti da sempre al genere umano. Womb, del regista ungherese Benedek Fliegauf, le fonde in un'opera drammatica che tocca temi scabrosi come l'inseminazione artificiale, l'opportunità di applicare questa tecnica in casi limite e l'incesto. Tanta carne al fuoco affrontata in una pellicola gelida, intima e soggettiva, incentrata su una storia d'amore talmente forte da resistere ai colpi inferti dal destino. Fulcro di Womb è Rebecca (Eva Green), giovane donna che, dopo aver trascorso 12 anni in Giappone, fa ritorno a casa per riunirsi a Tommy, l'amore dell'infanzia. Dopo la morte improvvisa del giovane a causa di uno spaventoso incidente, Rebecca decide di utilizzare il suo DNA per generare un figlio/clone dell'amore perduto. Rebecca cresce Thomas (stesso nome del padre) in una casa sulla spiaggia nella solitudine più totale, sottraendolo agli sguardi e ai giudizi dei nonni e dei vicini di casa, ma sebbene il ragazzo viva in simbiosi con la madre, una volta divenuto adulto scopre il sesso e si innamora di una coetanea, provocando in Rebecca dolore e gelosia.


Ciò che colpisce in una pellicola così densa a livello tematico come Womb è il vuoto totale, fisico e relazionale, in cui si muovono i personaggi. I riferimenti spazio-temporali sono quasi assenti. Benedek Fliegauf ha scelto come location la fredda costa del Nordest della Germania, ma a giudicare dalle scarse informazioni forniteci e dalla lingua utilizzata la pellicola sembra ambientata in un'Inghilterra futuristica molto simile a quella creata da Kazuo Ishiguro nel suo romanzo Non lasciarmi. Con l'agghiacciante dramma anglogiapponese Womb condivide la presenza dei cloni, accennata in più occasioni in cui ci si riferisce ai bambini nati con questa pratica come a 'copie', anche se qui manca ogni forma di struttura o controllo che regoli l'esistenza dei cloni distinguendoli dagli esseri umani. Ma questo è un elemento che, seppur intrigante, non viene approfondito. L'interesse del regista si concentra unicamente sul piano emotivo della storia. Gli spazi immensi, le praterie incontaminate, le spiagge deserte sono teatro di una relazione sentimentale che prosegue anche dopo la morte, la presenza fisica degli esseri umani è ridotta all'osso e il passo lento della narrazione viene reso attraverso l'uso insistito di campi lunghissimi, sospensioni e silenzi.

Il non detto ha la meglio sulla storia e quella che, di solito, è vista come una qualità si rivela un'arma a doppio taglio in una pellicola che lavora di sottrazione fino ad apparire troppo scarna. Ottimo il lavoro sulla ricostruzione dell'ambiente, supportato da una fotografia eccellente opera di Péter Szatmári. La luce bluastra, tenue e pastellata, invade la natura immersiva che fa da sfondo al dramma umano e che rappresenta uno dei pilastri del film insieme alle interpretazioni dell'intensa Eva Green e di Matt Smith, acclamato Doctor Who del piccolo schermo. Benedek Fliegauf ha il pregio di evitare la facile morbosità e dirige con mano delicata scene complesse come la passione infantile, ma audace, in apertura di film o le sequenze edipiche tra Rebecca e Thomas, ma alla lunga il suo Womb sconta quella lentezza che lo rendono un'opera sì peculiare, ma inadatta a chi non ha la pazienza di lasciarsi suggestionare da un sussurro.

Movieplayer.it

3.0/5