Recensione Una fragile armonia (2012)

Premiato con l'Oscar per il documentario Watermarks, Yaron Zilberman debutta alla regia con un film che vuole essere un'esaltazione del gruppo e della musica come ideale supremo.

Quattro cuori in inverno

Peter, Daniel, Robert e Juliette formano da venticinque anni un quartetto d'archi tra i più apprezzati al mondo, il Fugue; quando al primo vengono diagnosticati i sintomi del morbo di Parkinson, gli equilibri faticosamente costruiti nel tempo si infrangono. Peter non è solo un violoncellista sublime, ma anche il leader indiscusso della formazione, il punto di riferimento. Davanti alla sua malattia Juliette entra in crisi e rifiuta di continuare a suonare senza colui che considera un padre; il marito della donna, Robert, scalpita per ottenere maggiore visibilità e diventare primo violino; Daniel, forse il più talentuoso di tutti, ridiscute la propria vita, facendo i conti con ciò che ha sempre messo tra parentesi per dedicarsi anima e corpo alla musica, ovvero l'amore. Intreccia una relazione con Alexandra, figlia di Juliette e Robert, una decisione che rischia di mettere in crisi l'esistenza del gruppo. Il Quartetto in Do diesis min, op. 131 di Beethoven, quaranta minuti di concerto ininterrotto, diventa così il cimento attraverso cui i quattro tentano di ritornare all'antica serenità.


Premiato con l'Oscar per il documentario Watermarks, Yaron Zilberman debutta alla regia con un film che vuole essere un'esaltazione del gruppo e della musica come ideale supremo; al di là della tematica più evidente, il confronto tra un artista e una malattia inesorabile, Una fragile armonia è soprattutto un apologo sull'importanza di avere dei padri, personalità che forniscano una guida sicura da seguire, che incarnino un codice morale da cui attingere ogni qual volta ci si trovi davanti ad un bivio. In questo senso l'improvvisa fragilità del patriarca Peter è il motivo scatenante della crisi profonda del quartetto e getta un'inquietante luce sulle loro debolezze.

Zilberman, che ha scritto la sceneggiatura assieme a Seth Grossman, non padroneggia con sufficiente polso uno script denso di temi importanti e lo contiene in una struttura troppo schematica e ordinaria. Mette tanta buona volontà, insomma, al cospetto di una storia che avrebbe riservato interessanti spunti di riflessione sul rapporto tra uomo e arte, sul confine tra creazione ed esecuzione, ma si limita a mostrarne solo gli aspetti più tormentati. La musica non sembra espressione primaria della creatività umana, ma diventa uno strumento di prevaricazione, che invece di liberare i sogni li affossa in nome della devozione al bene supremo, rappresentato qui dal quartetto stesso. Il gruppo non è l'incontro di individualità originali, ma il duplicato di una famiglia patriarcale in cui il vetusto e malandato capo (un Christopher Walken che si esprime quasi sempre attraverso lunghi sermoni), instrada i figliocci e corregge i loro atteggiamenti stonati.

La malattia di Peter, ossia la rinuncia definitiva alla carriera, il doloroso percorso che lo porta ad abbandonare la musica, finisce in secondo piano, soverchiato dalle correnti tumultuose che agitano gli altri personaggi e si tratta di supplizi terreni, un amore non corrisposto, un tradimento consumato per pura ripicca, il difficile rapporto con dei genitori assenti, la volontà di colmare quel 'vuoto', legandosi ad un uomo più maturo, lo stesso che anni prima aveva avuto una relazione con la madre. Le crepe di questo delicato ensemble devono però essere ricomposte e il luogo della riconciliazione può essere solo il palcoscenico. Daniel (Mark Ivanir), innamorato della giovane Alexandra (Imogen Poots), viene 'punito' (e poi perdonato) per aver liberato la passione e per aver intaccato la stabilità del gruppo; Robert torna nelle retrovie, costretto ad abbandonare le velleità di diventare un primo violino, e Juliette con la sua viola continua a 'servire tre padroni'. In un contesto del genere, in cui alla fine tutti perdono qualcosa, per raggiungere la tanto agognata armonia, anche gli attori vengono ingabbiati in una partitura che ne frena gli entusiasmi, con il risultato di apparire spesso persi, come se non credessero a ciò che stanno facendo e interpreti del calibro di Philip Seymour Hoffman e Catherine Keener non riescono a dare il loro contributo.

Movieplayer.it

3.0/5