Recensione Twende Berlin (2011)

In parte road movie, in parte film musicale, il curioso documentario di Farasi Flani mescola vari strumenti espressivi - dall'hip hop alla street art - e veicola un messaggio di partecipazione collettiva e di unione trasversale tra le culture in nome di alcuni valori universali, come la riappropriazione degli spazi urbani.

Nel nome dell'amore e della musica

Un documentario solo in apparenza scanzonato e sgangherato come Twende Berlin (vale a dire Andiamo a Berlino) serve a ricordarci come una delle principali vocazioni del cinema sia quella di mettere lo spettatore a contatto con un "mondo altro", permettendogli di abbracciare altri punti di vista (lontani dall'antropocentrismo tipico della cultura occidentale) e di modificare le proprie percezioni, magari anche immaginando un nuovo modo di vivere e di rapportarsi con la realtà. In molti casi capita che per riuscire a comprendere appieno un fenomeno caratteristico della nostra società sia necessaria la presenza di un osservatore "alieno", cioè estraneo al nostro modo di vivere, e proprio per questo in grado di analizzarci con il giusto grado di distacco. E chi potrebbe essere più "alieno" della folle combriccola degli Ukooflani? Questo stralunato gruppo di musicisti di Nairobi, esponenti del vivace movimento hip hop keniano, decide di partire alla volta della gelida Berlino, in missione per conto del misterioso Upendo Hero (letteralmente Eroe dell'Amore), bizzarro supereroe dalla testa a forma di cuore che predica la fratellanza e la condivisione degli spazi pubblici.

Questo è il fantasioso assunto di partenza da cui si sviluppa Twende Berlin - opera dall'impostazione istintiva e naif del keniano Farasi Flani ispirata al progetto Urban Mirror - che definire documentario è riduttivo: in parte road movie, in parte film musicale, mescola vari strumenti espressivi (dal rap alla street art) e veicola un messaggio di partecipazione collettiva e di unione trasversale tra le culture in nome di alcuni valori universali, come la riappropriazione degli spazi cittadini per la libera espressione degli individui. La parola chiave che risuona nel corso del film è "gentrificazione", vale a dire un'inesorabile processo di modifica del tessuto urbano su base classista, che porta a creare moderne città a esclusivo beneficio della popolazione benestante, relegando ai margini la fascia meno ricca. Un fenomeno globale che accomuna le metropoli di Berlino come di Nairobi, e che - proprio perché è espressione non solo di una discriminazione sociale, ma anche etnica e razziale - rende inaspettatamente simili i popoli del Nord e del Sud del mondo.
I trascinanti Ukooflani, sempre sotto la guida spirituale di Upendo Hero, compiono a suon di musica la loro incursione in una periferia berlinese molto lontana dallo stereotipo turistico. La band passa in rassegna i principali collettivi artistici indipendenti (dal progetto di Haus Schwarzenberg al gruppo Pony Pedro, senza dimenticare gli esperimenti di musei e gallerie occupate come la Tacheles o il Raw Temple, oggi sempre più a rischio di chiusura) ed entra in contatto con gli abitanti dei quartieri ghettizzati (come Marzahner Promende dell'ex Berlino Est), che lottano per mantenere la loro identità. Alla fine di tanto peregrinare il massaggio non può che essere uno solo: "condividere l'amore" rappresenta l'unica forma di resistenza possibile contro l'invasività del mercato e l'omologazione degli spazi.
Uniti, nel nome della musica, attraverso le latitudini.