Recensione Troppo amici (2009)

Dopo i risultati del campione d'incassi Quasi amici, la distribuzione italiana ha deciso di far uscire in sala il film precedente dei registi Eric Toledano ed Olivier Nakache: una commedia che tratta l'istituzione famiglia da un'ottica stilizzata e grottesca, ma non senza commozione.

Disfunzioni familiari

Famiglie sull'orlo di una crisi di nervi, sullo sfondo della Parigi di inizio millennio: quella di Alain e Nathalie, lui ex animatore turistico con velleità di attore, incapace di mantenersi stabilmente un lavoro, lei scombussolata direttrice di un supermarket, che fa fatica a badare allo scalmanato figlio Lucien e a convincere suo marito a dare una direzione stabile alla sua vita. Ma anche quella di Jean-Pierre, fratello di Nathalie, avvocato da quattro soldi costretto ad accettare la difesa (d'ufficio) di delinquenti assortiti, oppresso dalla personalità ingombrante della moglie Catherine e con una figlia, la piccola Gaëlle, antipatica e petulante suo malgrado. E poi c'è la famiglia sognata da Roxanne, altra sorella di Nathalie, che si attacca come una sanguisuga al medico Bruno, con l'ansia di rimanere sola e il concreto rischio, grazie al suo atteggiamento oppressivo e nevrotico, di veder realizzarsi questa sua paura. Insieme, questa galleria di personaggi compone un nucleo familiare allargato, variopinto e instabile, che stringe la sua morsa su un Alain che non è ancora riuscito ad accettare le sue responsabilità di padre, e mal soffre l'invadenza, che considera malsana, dei parenti di sua moglie.


Dopo i risultati del campione d'incassi Quasi amici, che ha imposto i registi Eric Toledano ed Olivier Nakache all'attenzione di pubblico e critica internazionali, la distribuzione italiana ha deciso di far uscire in sala il loro precedente Tellement proches, reintitolato per l'occasione (e senza troppa fantasia) Troppo amici. E' curioso come questa commedia, datata 2009, e a nostro parere superiore al più celebrato successore, sia passata quasi inosservata all'epoca della sua uscita, e abbia goduto solo ora di una distribuzione al di fuori dei paesi di lingua francese. Eppure, il film dei due registi ha tutto per intrattenere un pubblico internazionale, e non soffre neanche di quell'appesantimento da blockbuster, un po' patinato e forzatamente patetico, che sarà destinato a caratterizzare il film del 2011. Parte con un ritmo indiavolato, questa pellicola, presentando da subito la sua galleria di personaggi grotteschi, sopra le righe, volutamente caricaturali: fin dalla cena di famiglia a casa di Jean-Pierre, in cui convergono tutti i personaggi principali (originale, a questo proposito, la scelta di rovesciare una consuetudine che vuole l'incontro/scontro tra i vari personaggi alla fine, come momento quasi catartico) capiamo subito di trovarci di fronte a un'estremizzazione iperrealistica della realtà, a un tratteggio a tinte forti di nevrosi e sociopatie contemporanee, restituite attraverso un'ottica stilizzata e grottesca.

Dopo la prima, folgorante mezz'ora (quasi un big bang in cui la variegata comunità familiare deflagra, proiettando le ovunque le sue schegge senza controllo) seguiamo le vicende di ognuno dei personaggi, alle prese con l'apparente sfaldamento di un'istituzione-famiglia ormai incapace di far da collante alle loro vite: mentre Alain torna da suo padre insieme all'irrequieto Lucien, preparandosi all'ennesima conferma della fine della sua adolescenza, Nathalie e Catherine si rifugiano nel pout pourri multiculturale, ospitando rispettivamente una comunità di immigrati pakistani e il gruppo di insegnanti ebraici di Gaëlle; nel frattempo, Roxanne fa un estenuante tira e molla con un Bruno sempre più insofferente alle sue manie. Nonostante il perdurante carattere grottesco delle situazioni, e un ritmo che nel suo insieme resta sostenuto, il tono della narrazione scivola gradualmente verso un maggiore intimismo, mentre in primo piano viene messo il senso di inadeguatezza di ognuno dei personaggi. A dominare è comunque, ancora una volta, il punto di vista di un Alain che, attraverso l'allontanamento e il rifiuto dei legami consolidati (e l'aiuto del simpatico genitore) fa il suo personale e definitivo percorso di crescita.

La regia di Toledano e Nakache riesce a dosare in modo abile risate e commozione, premendo il pedale del grottesco solo a tratti, e restituendo alle vicende dei personaggi una credibilità che va anche al di là del tratteggio (comunque sopra le righe) con cui lo script li descrive. Le risate e il divertimento, profusi a piene mani per tutta la durata della pellicola, trovano sempre il loro (amaro) contraltare in un senso di fallimento che sembra accomunare tutti i protagonisti principali; superato solo (parzialmente) attraverso l'onestà della ricerca interiore. Ma non ci si fraintenda: in Troppo amici si ride comunque molto, e la pur presente componente riflessiva è subordinata a una confezione che punta innanzitutto a divertire. Il carattere esasperato, a volte parossistico delle situazioni in cui i personaggi vengono a trovarsi non nuoce all'elemento credibilità, grazie a una sceneggiatura che delinea i caratteri, pur sclerotizzati nelle loro idiosincrasie, con grande attenzione; nella caricatura, non si fa fatica a riconoscere tratti importanti di quotidianità, e soprattutto le sempre presenti contraddizioni del rapporto tra l'individuo e la famiglia. Proprio queste ultime sono la "palestra" che servirà al protagonista per accettare definitivamente le sue responsabilità: persino l'happy ending appare in questo senso qualcosa di più di una mera necessità narrativa, riuscendo persino a risultare toccante. E non disturba neanche lo "scherzo" metacinematografico che chiude il film, con inevitabile prosecuzione sui titoli di coda: solo un altro elemento che contribuisce al sorriso con cui lo spettatore, probabilmente, uscirà dalla sala.

Movieplayer.it

4.0/5