Recensione Il passato (2013)

La ricchezza e il dettaglio della sceneggiatura non inficiano assolutamente la fruizione dell'opera, che, grazie alla cura delle performance, è avvincente dal primo fotogramma, e anzi l'avvincendarsi sorprendente delle prospettive rende l'esperienza del film sempre più affascinante.

Ieri, sempre

Il genio, forse, è chi crea dal nulla meraviglie, senza particolare sforzo e senza grande impegno. Il genio è miracoloso, inspiegabile, e irripetibile. In questo caso allora quello di Asghar Farhadi non è genio, perché la meraviglia del suo cinema è evidentemente il risultato di un lavoro enorme con le storie - e i suoi script chiaroscurali, intelligenti, ricchissimi - e con gli interpreti, a cui vengono richieste settimane di prove minuziose ed estenuanti. E perché la meraviglia del suo cinema, dopo l'acclamato Una separazione, si ripete con Il passato.


Ahmad torna a Parigi dopo quattro anni per ritrovare la moglie Marie-Anne, che gli ha chiesto un divorzio a lungo rimandato, e trova la donna e le due figlie di lei in una situazione apparentemente inestricabile: Marie-Anne vive con un uomo che ha, a sua volta, un bimbo di cinque anni, la cui madre giace in coma da otto mesi dopo aver tentato il suicidio di fronte ai familiari. Lucie, la figlia sedicenne di Marie, non ne vuole sapere di quella unione ed è praticamente fuori controllo. Nonostante le personali questioni irrisolte con la ex, Ahmad cerca di dare una mano, ma la sua presenza gentile e affettuosa, ma anche perturbante e indagatrice, scatena la tensione latente con inevitabili, drammatiche conseguenze.

Anche in Il passato come in un Una separazione, una situazione assolutamente semplice, quotidiana, implica potenzialità esplosive e di grande portata emozionale: e Asghar Farhadi è un maestro del dettaglio apparentemente insignificante che è mostrato in seguito come fondamentale, e della gestione di situazioni semplici che si rivelano, con lo sviluppo della narrazione, imprevedibili. Queste caratteristiche non inficiano assolutamente la fruizione dell'opera, che, grazie alla cura della messa in scena e delle performance, è avvincente dal primo fotogramma, e anzi l'avvincendarsi sorprendente delle prospettive rende l'esperienza del film sempre più affascinante.

Perché è sotto la pelle, nei gesti, nelle ombre dei volti, nelle pieghe delle labbra, e negli sguardi che Asghar Farhadi legge le sue storie potenti e umanissime, e negli stessi elementi ce le restituisce. Per questo chiede ai suoi attori di conoscere così bene i personaggi prima di iniziare a girare; ma la sua grandezza di regista di attori è anche nella gestione, ben più difficile, degli interpreti più giovani: qui, in particolare, l'incredibilmente promettente Pauline Burlet e il piccolo e commovente Elyes Aguis sono il cuore emotivo del film, vittime come sono di scelte e di errori altrui. Ma non è nemmeno il caso di parlare di errori, perché Farhadi non ha alcun intento moralizzatore: la sua ambizione è soltanto mostrarci ciò che vede, svelarci chi siamo senza reticenze, facendocelo accettare con gratitudine, dimostrandoci infinito rispetto. Se non è genio è grande, grandissimo cinema.

Movieplayer.it

4.0/5