Recensione The Grandmaster (2013)

Nell'opera, sofferta e travagliata, incentrata sulla figura del Maestro Ip Man, Wong Kar-wai esplora il lato piú profondo e spirituale del kung fu, regalandoci, come sempre, momenti di grande intensità emotiva, nonostante un montaggio non sempre impeccabile.

Maestro, di combattimento e di vita

Dedizione, generosità, umiltà ma anche fiducia nei propri mezzi: sono queste le doti che un combattente deve possedere per poter aspirare al ruolo di Maestro. E sono anche le doti che ha dimostrato di possedere Wong Kar-wai nel corso della lunga gestazione di The Grandmasters: la dedizione per non lasciarsi spaventare dal dilatarsi infinito dei tempi, l'umiltà di tornare e ritornare sul proprio lavoro (seppur approdando a un montaggio finale tutt'altro che perfetto), la fiducia e la generosità per mostrare al pubblico, dopo averne fatto esperienza egli stesso, il lato del kung fu più profondo e spirituale. Perché un'arte marziale non è semplicemente un modo di uccidere, ma al contrario, e soprattutto, un modo di vivere, un'attitudine mentale che si fa forte di valori come il rispetto, l'onore, la lealtà.


Una delle figure che in maniera più cristallina ha saputo incarnare questi concetti è Ip Man, Maestro di Wing Chun che diventerà poi il mentore di Bruce Lee. Wong Kar-wai ne segue il cammino fin dagli anni Trenta del secolo scorso quando, a Foshan, ottiene la definitiva conferma delle sue abilità vincendo il duello proposto da un Maestro del Nord, in cerca di un successore in grado di proseguire il suo cammino di unificazione degli stili di combattimento tanto del nord quanto del sud. La sua vittoria provoca scompiglio nelle certezze nella giovane e volitiva Gong Er, che non aveva mai visto perdere il padre, tanto da convincerla a sfidare a sua volta Ip Man, che risulterà, per la prima e unica volta, battuto: ma la guerra civile e l'invasione giapponese si frappongono tra i due, impedendo loro di consolidare la vicinanza e la comunanza di intenti che avevano sperimentato in quell'unico scontro. Gong Er dovrà infatti farsi carico di vendicare la morte del padre, ucciso dal proprio delfino che, colpa forse ancora più grave dell'omicidio, aveva disonorato la loro famiglia collaborando con il nuovo governo giapponese, mentre Ip Man sarà chiamato ad affrontare la morte delle due figlie e la necessità di vivere separato dall'amata moglie.

Costante nella cinematografia di Wong Kar-wai è l'esplorazione della mancanza: del non detto, del non fatto, di quello che poteva essere e non è stato, di quello che potrebbe ancora essere e non sarà. E The Grandmaster non fa eccezione: i suoi protagonisti si toccano, imprimono un segno potentissimo nella vita l'uno dell'altro, e poi si dividono. Ma gli effetti di certi incontri sono un'eco inestinguibile: e così Gong Er salva la vita a una spia cinese, senza sapere che il suo gesto lo convincerà poi a disertare, e a diventare a sua volta un Maestro, Ip Man continua a ripercorrere con la mente la sublime tecnica svelatagli da Gong Er, nella speranza di averne, presto o tardi, un'ulteriore dimostrazione, mentre lei insegue una vita senza compromessi, sfidando il mondo per perdere, in definitiva, solo contro se stessa. Ancora una volta Wong Kar-wai sovrappone i piani della narrazione, muovendosi, assecondando il percorso tortuoso delle emozioni e della coscienza, nel tempo e nello spazio.
A tratti, questo processo manca di fluidità e la coesione tra le diverse esistenze dei protagonisti sembra venire meno, ma un montaggio evidentemente rimaneggiato allo stremo, e che ancora non ha trovato un equilibrio del tutto convincente, non riesce a scalfire troppo in profondità il fascino della poetica di Wong Kar-wai, che, come sempre, mette al centro della propria indagine le contraddizioni, le difficoltà ma anche le bellezze dell'essere umani, la necessità di trovare un proprio cammino autentico e un proprio posto nel mondo, il sacrificio, la rinuncia e il vago rimpianto che una scelta come quella di vivere senza compromessi impone. Nonostante la potenza di queste suggestioni, è però impossibile non rammaricarsi per una sceneggiatura che troppo spesso si perde inseguendo una strada per abbandonarne troppe altre, sbilanciando l'attenzione verso la pur affascinante Gong Er, mentre il ruolo della spia cinese rimane negletto e lo stesso Ip Man appare, con il prosieguo del racconto, sempre più in disparte. Rimane comunque sempre affascinante il confronto tra il tumulto interiore di Gong Er, la sua assoluta determinazione nel difendere la propria dignità e l'inevitabilità delle proprie scelte, e la forza, serena e illuminata, di Ip Man, il suo rifiuto di soccombere a se stesso, la sua volontà di dare e prendere, di condividere, di aprirsi al mondo.
Sull'aspetto puramente visivo, al contrario, non è possibile imputare all'opera di Wong Kar-wai alcuna sbavatura: anche grazie all'apporto del direttore della fotografia Philippe Le Sourd, la composizione dell'immagine è perfetta, le sequenze di lotta ispirate ed evocative, in grado di esprimere, a seconda della necessità, l'odio cieco e assoluto, la sensualità destinata a trovare la sua unica espressione nella lotta, l'armonia e la bellezza della letalità. Attenendoci alla logica di Ip Man, che, in apertura della pellicola, ricorda come il kung fu sia una questione di verticale e orizzontale, di rimanere in piedi e vincere, o di crollare ed essere sconfitti, si può dire che Wong Kar-wai, nonostante qualche scivolone, alla fine sia rimasto in piedi.

Movieplayer.it

3.0/5