Recensione Bling Ring (2013)

Se l'opera è comunque interessante da un punto di vista puramente estetico, grazie ad alcune scelte di fotografia piuttosto originali, un montaggio frenetico ma mai fastidioso e la solita ottima colonna sonora ad accompagnare il tutto, questo nuovo film della Coppola viene a mancare proprio in quello che era stato il suo punto di forza anni or sono, ovvero la sceneggiatura.

Fashion Crime

Nel 2009 un gruppo di adolescenti californiani venne arrestato e condannato per aver svaligiato diverse case di celebrità quali Lindsay Lohan, Megan Fox, Orlando Bloom e Paris Hilton. La giovane gang venne presto ribattezzata come il Bling Ring (la banda dei gingilli) e divenne oggetto di interesse di tutti i media, tabloid e riviste di moda e gossip in primis. Fu però un articolo scritto da Nancy Jo Sales per Vanity Fair dall'evocativo titolo The Suspects Wore Louboutins a catturare l'attenzione di Sofia Coppola che - fresca del Leone d'oro ottenuto, seppur tra le polemiche, per Somewhere - era alla ricerca di un soggetto che le permettesse di distanziarsi dalla sua ultima regia.


Che si tratti di una storia vera insomma è evidente sia dalle premesse che dai titoli di testa, ma anche lo stile adottato dalla regista - con largo utilizzo di strumenti multimediali quali foto, immagini tratte dal web, dai social, dalla TV se non "rubate" da telecamere di sicurezza - non manca mai di suggerire una fortemente voluta aderenza alla realtà, quasi come se la regista, abbandonato il romanticismo di Lost in Translation o la trasgressione pop di Marie Antoinette, sia ormai molto più interessata a documentare/mostrare che a raccontare/(psico)analizzare.
Il risultato in questo senso è al tempo stesso diverso ma non troppo differente dal discusso e discutibile Somewhere, con questo The Bling Ring che regala certamente ai suoi spettatori una maggiore dinamicità e anche un plot, sebbene esiguo, da seguire, ma conserva comunque una freddezza di fondo, una totale mancanza di empatia nei confronti dei protagonisti.

E' certamente vero che mai come in questo caso sono proprio i personaggi di partenza (quelli reali) a generare questa distanza tra spettatore e personaggi sullo schermo, ed è altrettanto probabile che la mancanza di alcun tipo di giudizio da parte dell'autore così come di qualsiasi tipo di analisi delle (motiv)azioni dei suoi giovani protagonisti voglia riflettere la vacuità dei loro animi e del loro mondo. Ciononostante viene spontaneo il confronto con un film recente e non troppo dissimile quale Spring Breakers di Harmony Korine che, pur spingendo molto di più sul pedale del grottesco e dell'eccesso, riesce in maniera eccelsa a rappresentare gli orrori di una generazione che vive solo di immagine e falsi miti e, per assurdo, riesce nello scopo di diventare una cautionary tale molto più della vera storia utilizzata dalla Coppola.

Se l'opera è comunque interessante da un punto puramente estetico grazie ad alcune scelte di fotografia piuttosto originali, un montaggio frenetico ma mai fastidioso e la solita ottima colonna sonora ad accompagnare il tutto, questo nuovo film della Coppola viene a mancare proprio in quello che era stato il suo punto di forza anni or sono, addirittura portandola a vincere un Oscar, ovvero la sceneggiatura: lo script infatti non solo manca di sviluppare adeguatamente i personaggi, ma perfino le rapine vere e proprie che invece si riducono con l'essere nulla più di una semplice battuta: "Lindsay stasera non è a casa, dai trovami l'indirizzo e andiamo". Dell'heist movie quindi non c'è traccia, della denuncia sociale idem, quello che rimane è una sfilata infinita di vestiti e scarpe, tante belle ragazze che posano davanti agli obiettivi degli smartphone invece che davanti alla macchina da presa (e in più le capacità delle giovani e promettenti attrici, Emma Watson e Taissa Farmiga in primis, sono poco sfruttate) e qualche cameo di stelle e stellette.
Scusate la franchezza, ma noi semplicemente rivorremmo indietro la Sofia Coppola di Lost in Translation.

Movieplayer.it

3.0/5