Recensione Il matrimonio che vorrei (2012)

E' una commedia peculiare, Il matrimonio che vorrei, che per gran parte della sua durata non sembra neanche tale: più che ridere si sorride, con un sottofondo di amarezza per la rappresentazione, semplice quanto impietosamente realistica, di una vita di coppia lentamente sclerotizzatasi nella routine e nel disinteresse.

Quando la coppia (non) scoppia

Kay e Arnold sono una coppia come tante, senza evidenti problemi. Sposati da un trentennio, dei figli adulti e ormai con famiglia, una vita agiata e un matrimonio apparentemente solido. Eppure, Kay sente che qualcosa non va nel rapporto con suo marito: l'intimità, quell'elemento che rende speciale la convivenza con un uomo, è ormai sparita da tempo. Lei e Arnold sono ormai due semplici conoscenti che vivono sotto lo stesso tetto, che si salutano la mattina per ritrovarsi la sera dopo il lavoro, cenare in silenzio davanti alla tv e andare poi a dormire in stanze separate. E' questo il matrimonio che la donna, da giovane, sognava? Evidentemente no. Così Kay, appresa casualmente l'esistenza di un rinomato terapista per coppie, che lavora in una piccola città del Maine, decide di fare il grande passo: messi insieme i suoi risparmi, la donna prenota un biglietto aereo e un soggiorno per due nella cittadina, per quella che sarà una settimana di terapia intensiva. Convincere Arnold, per il quale non c'è nulla che non vada nel loro matrimonio, non sarà facile: ma ancora più complesso sarà superare, nella terapia, le numerose resistenze opposte dall'uomo (ma anche, inconsciamente, da Kay stessa) a una faticosa ma necessaria rimessa in gioco del loro rapporto.


David Frankel è un regista che i territori della commedia, specie quella mainstream, li conosce bene: nel suo curriculum (cinematograficamente breve, ma significativo) c'è un grande successo di pubblico come Il diavolo veste Prada, ma anche i più recenti Io & Marley e Un anno da leoni, titoli che testimoniano la familiarità del cineasta col registro brillante/sentimentale, ma anche con la direzione delle star. Qui, in effetti, Frankel può contare su un trittico di interpreti del miglior calibro, che rendono più che mai agevole il suo lavoro di regista: a una Meryl Streep tornata a lavorare con lui dopo il successo del 2006, si affiancano un Tommy Lee Jones che sembra acquisire carisma e spessore invecchiando, e uno Steve Carell nel pieno della sua carriera, in grande spolvero dopo una serie di commedie di successo. L'impressione che si ha, guardando Il matrimonio che vorrei, è che Frankel debba far poco, registicamente parlando, se non affidarsi all'esperienza e all'alchimia creatasi tra Jones e la Streep, e agli sguardi penetranti e intelligenti di un Carrell più misurato che in passato, ma ugualmente efficace.

L'interazione tra i due protagonisti principali, certo merito anche di un attento quanto "invisibile" lavoro di direzione del regista, funziona in modo egregio: la Streep (tornata ai registri della commedia - ma pur sempre con una forte componente malinconica - dopo l'Oscar di The Iron Lady) è perfetta nel dar vita a una donna col volto segnato dal tempo e dai sogni infranti, ma che ancora non ha rinunciato a sperare; dall'altra parte, Tommy Lee Jones si rivela disarmante nell'apatia esibita dal suo personaggio, di un grottesco tanto più spinto quanto più credibile. Nel duo, si inserisce bene l'elemento perturbante rappresentato dal dottor Bernie di Steve Carell: personaggio quantitativamente meno visibile nella storia rispetto agli altri due, ma che massimizza la sua presenza con il peso decisivo che gli conferisce la sceneggiatura, ma anche col magnetismo espresso sullo schermo dal suo interprete. I tre si mostrano a proprio agio con una vicenda che richiede il passaggio frequente dai registri di un umorismo espresso quasi sottovoce, in cui alla realtà viene aggiunta solo una mezza tonalità in più di grottesco, a quelli più sentimentali e (quasi) sempre velati di malinconia.
E' in effetti una commedia peculiare, Il matrimonio che vorrei, che per gran parte della sua durata non sembra neanche tale: più che ridere si sorride, con un sottofondo di amarezza per la rappresentazione, semplice quanto impietosamente realistica, di una vita di coppia lentamente sclerotizzatasi nella routine e nel disinteresse. Al di là della voluta timidezza registica di Frankel, tuttavia, ciò che non funziona del tutto è la sceneggiatura scritta da Vanessa Taylor (screenwriter televisiva, qui al suo primo lavoro per il grande schermo): la vicenda, dipanata in modo convincente per gran parte della durata del film, e seguita dal regista col giusto tono, viene risolta frettolosamente e in modo poco credibile negli ultimi minuti. Evitando, ovviamente, di rivelare dettagli sulla conclusione della storia, possiamo affermare che la scelta è quella di un espediente facile, drammaturgicamente funzionale quanto poco convincente a livello di credibilità. La simpatia che avevamo accumulato per la coppia protagonista, e la partecipazione emotiva alle sue vicende, vengono in parte compromesse da un finale che ha il fastidioso sapore dell'artefatto. Nonostante ciò, i volti dei tre protagonisti restano impressi nella mente dello spettatore, e non si può fare a meno di ripensare ad essi con un sorriso: complici anche i divertenti titoli di coda, che riescono in parte (ma solo in parte) a riscattare l'amaro in bocca lasciatoci dagli ultimi, deludenti minuti della pellicola.

Movieplayer.it

3.0/5