Recensione Grandi speranze (2012)

Il regista Mike Newell e lo sceneggiatore David Nicholls si cimentano nell'impresa di adattare il capolavoro dickensiano scegliendo la strada della fedeltà al testo letterario, senza però riuscire a imprimere una visione personale alla loro rivisitazione. Un'impostazione registica di stampo piuttosto tradizionale finisce per valorizzare soprattutto le interpretazioni.

Ritorno al classico

Il grande schermo sembra essere tornato a fare affidamento sulla classicità dei romanzi ottocenteschi, come dimostrano, tra gli altri, le recenti trasposizioni di Dorian Gray e di Bel Ami - Storia di un seduttore, l'imminente uscita di Les Misérables e un adattamento di Therese Raquin ancora in lavorazione. Da sempre fonte d'ispirazione privilegiata per la Settima arte, le grandi narrazioni del secolo scorso garantiscono una robustezza dell'intreccio, un'ariosità del racconto e un afflato epico che le moderne saghe di Twilight, di Hunger Games, o peggio ancora di Cinquanta sfumature di grigio non possono nemmeno lontanamente sognarsi. Sarà magari il bisogno di certezza e di solidità che spinge l'industria cinematografica - in questo momento un po' traballante per via della crisi economica - a riscoprire gli antichi legami letterari e a puntare sull'universalità dei classici. E chi potrebbe essere definito più classico di Charles Dickens, forse dopo William Shakespeare l'autore simbolo della tradizione inglese e uno dei più trasposti in assoluto al cinema. Di certo non si contano le versioni cinematografiche e televisive di Canto di Natale, Oliver Twist e David Copperfield; ma anche Grandi Speranze (forse leggermente meno conosciuto in Italia, ma considerato uno dei migliori romanzi di Dickens nel mondo anglosassone) è stato oggetto di ben sette traduzioni su grande schermo e di svariate altre per il tubo catodico, tra cui anche una recente miniserie firmata BBC.


Questa volta, nell'occasione dei duecento anni dalla nascita di Dickens, è toccato al regista Mike Newell e allo sceneggiatore David Nicholls cimentarsi con l'adattamento del suo capolavoro del 1860. Si tratta di un'opera più oscura di quanto si possa immaginare, attraversata da atmosfere gotiche e quasi horror, nella quale emerge un ritratto impietoso della società dell'epoca, dominata da un'umanità cinica e da istituzioni (tra cui quelle della famiglia e del matrimonio, ma anche i centri educativi e i tribunali) repressive e autoritarie. Davvero difficile riuscire nell'impresa di adattare il contenuto del romanzo all'attualità dei nostri tempi, senza però perdere di vista al tempo stesso l'aderenza al senso più profondo - sociale, morale e filosofico - dell'opera. Ci aveva provato nel 1998 Alfonso Cuarón con Paradiso perduto, azzardando una modernizzazione eccessiva e sbalestrata che finiva per stravolgere totalmente il testo originale. Questo Grandi Speranze, invece, si muove sul versante del tutto opposto, ovvero quello della traduzione quasi letterale, che risulta però altrettanto poco significativa. Il film condensa così il più fedelmente possibile - nelle sue due ore e passa di durata - l'intrico di vicende e il carosello di personaggi che ruotano intorno a Pip, povero orfano di provincia che, miracolosamente ricompensato da un misterioso benefattore, fa il suo ingresso nell'alta società londinese con l'obiettivo di poter conquistare l'algida Estella, sua inarrivabile innamorata fin dall'infanzia.

Mike Newell conferma ancora una volta di essere un regista "di mestiere", dotato del talento e della competenza necessari per passare da un genere all'altro e da un adattamento all'altro, ma ahimè privo del guizzo stilistico posseduto da autori come ad esempio Roman Polanski (il quale, pur senza tradire la classicità di Oliver Twist, ha saputo piegare l'opera alla propria cupa visione personale). Sprovvisto di una chiave di lettura inedita e di soluzioni registiche creative, il Grandi Speranze di Newell finisce per assomigliare a una decalcomania un po' scolorita e spenta. La pur notevole abilità del regista nel valorizzare scenografie e ambienti - in particolare il lugubre mausoleo in cui si trincera Miss Havisham, ma anche le tetre paludi che segnano simbolicamente l'esordio e l'epilogo del film - da sola non riesce a compensare la mancanza di nerbo e di impeto della narrazione cinematografica, caratterizzata da un impianto troppo statico e quasi teatrale. Ed è forse proprio per questo che a essere esaltate in Grandi Speranze sono soprattutto le interpretazioni del cast. I protagonisti Jeremy Irvine (War Horse) e Holly Grainger (Bel Ami - Storia di un seduttore), pur non possedendo una straordinaria gamma espressiva, dimostrano ancora una volta di essere particolarmente adatti per i ruoli in costume. Ma va da sé che a mangiarsi letteralmente la scena sono l'evanescente e spiritata Miss Havisham di Helena Bonham Carter e il torvo e inquieto Magwitch di Ralph Fiennes: le loro performance da mattatori valgono, ça va sans dire, il prezzo del biglietto.