Recensione Argo (2012)

Alla sua terza regia, Ben Affleck continua ad occhieggiare quegli autori che negli anni '70 rinnovarono profondamente temi e prassi del cinema americano; e fa un'interessante, ironica riflessione sul cinema stesso, sulla fabbrica dei sogni hollywoodiana con le sue bugie e il suo potere salvifico.

Cinema salvifico

Teheran, 1979. Il paese è nel caos, lo scià è appena fuggito trovando rifugio negli USA, mentre l'ayatollah Khomeini e i suoi rivoluzionari hanno proclamato la repubblica islamica. Le strade sono controllate e pattugliate dalle guardie del nuovo regime, nel paese monta la rabbia anti-occidentale: gli Stati Uniti vengono accusati di tramare per riportare sul trono il deposto sovrano, mentre gruppi di studenti inscenano imponenti cortei. Uno di questi penetra nell'ambasciata statunitense, con il beneplacito delle autorità, e prende in ostaggio una cinquantina di diplomatici: sei di essi, però, riescono a fuggire e trovano rifugio presso la vicina casa dell'ambasciatore canadese. Il governo americano è preoccupato per la sorte dei sei uomini quasi quanto per quella degli ostaggi: verosimilmente, infatti, sarà solo questione di tempo perché gli occupanti dell'ambasciata si rendano conto della loro assenza, e inizino a dar loro la caccia, mettendo a rischio la stessa posizione dell'alleato canadese. L'agente della CIA Tony Mendez architetta così un singolare piano per far fuoriuscire i diplomatici dal paese: la fittizia realizzazione di un film di fantascienza, intitolato Argo, di cui i sei uomini dovranno impersonare la crew, approdata in Iran per effettuare un sopralluogo. Il piano sembra folle, ma nessuna delle alternative proposte appare praticabile: la collaborazione del governo canadese rende così possibile l'avvio delle operazioni. Ma, per rendere credibile il tutto, Mendez dovrà fare in modo che Argo abbia una vera produzione, e che tutti, anche nel suo paese, credano alla sua realizzazione.


Arrivato alla sua terza regia, Ben Affleck continua ad occhieggiare un cinema d'altri tempi, specie quello che negli anni '70 rinnovò profondamente temi e prassi del cinema americano, portando alla ribalta una nuova generazione di cineasti. Figlio di quel decennio, Affleck ne coglie l'afflato, le inquietudini e l'incertezza, che giungeva sullo schermo dopo aver attraversato ogni aspetto della vita degli americani: in questo caso, come molti dei cineasti del periodo, trae spunto da un fatto reale, non a caso avvenuto proprio alla fine di quel decennio, non a caso segnante un nuovo smacco della superpotenza americana dopo la ferita ancora aperta (e sanguinante) del Vietnam. In Argo si ritrovano Sydney Pollack e William Friedkin, l'attenzione al dettaglio unita alla cura della struttura narrativa, la classe registica che si accompagna alla capacità di dirigere gli attori, l'intrattenimento figlio del mestiere unito alla voglia di raccontare la realtà. Nel film troviamo un personaggio che è emblema, problematico, dell'uomo al servizio del proprio paese: mosso da un senso del dovere che è innanzitutto condivisione di valori, forte di intelligenza e capacità persuasiva più che di muscoli (e per questo più democratico che repubblicano) un po' folle come chiunque continui a credere, malgrado tutto, in un sogno: o meglio, nei rimasugli, nelle schegge ancora sparse a terra (ma luminose) di quel sogno che si era infranto nel decennio precedente, con gli omicidi di John F. Kennedy e Martin Luther King, con la tragedia del Vietnam e ora con un nuovo attacco ai suoi fondamenti. C'è nel film di Affleck la voglia di sperare, nonostante tutto, l'eterno ottimismo dei pionieri (di cui il cinema è parte integrante) unito alla tragica consapevolezza dell'inattualità (già allora) di quel sentimento: l'inquietudine, incarnata dal personaggio di Tony Mendez, di chi si sacrifica ma è condannato a restare nell'ombra, di chi si sa ingranaggio, nonostante tutto, di un sistema più grande e per molti versi incomprensibile.

Ma in Argo c'è anche di più, ed è un'interessante (ed affettuosa quanto ironica) riflessione sul cinema stesso, sulla fabbrica dei sogni hollywoodiana ridotta, nelle ciniche parole del truccatore John Chambers (a cui dà il volto un perfetto John Goodman) a "una manica di cialtroni che mentono a tutti". E' proprio in quella capacità di mentire, figlia anche di un'artigianalità che sembra perduta (e che riesce a incantare, con la visione degli storyboard, anche le severe guardie iraniane) che il protagonista trova il suo migliore alleato, la sua arma che rappresenta, in fondo, lo specchio del proprio modo di essere (e per estensione di quello del regista). La parte centrale del film, con le sequenze ambientate a Hollywood, regala parecchi momenti da commedia, pervasi da quel sottile senso di nostalgia per un decennio, un modo di fare cinema, un immaginario, che l'attore/regista omaggia in realtà, con altri mezzi, in tutto il suo film. Omaggio che (complice anche l'uso del 35mm in luogo dell'ormai onnipresente digitale) si snoda in due ore di pellicola, racchiuso tra due sequenze magistrali: quella iniziale, dell'assalto all'ambasciata e della fuga dei sei diplomatici, con la frenesia del montaggio a trasmettere un senso di minaccia e di tensione quasi fisici; e quella, tesissima, della fuga finale, capace di incollare gli occhi dello spettatore allo schermo nonostante la consapevolezza (inevitabile) del suo felice esito. In mezzo, uno script (che lo sceneggiatore Chris Terrio ha tratto dal libro The Master of Disguise del vero Tony Mendez) calibrato e in grado di restituire bene anche ansie e paure dei sei fuggiaschi, rafforzato dall'ottima capacità del regista di lavorare con gli attori (e in primo luogo di vestire, lui stesso, i panni di un protagonista magnetico e credibile). Starsi a domandare quanto il film rispecchi la realtà è, in fondo, esercizio ozioso: attraverso l'arte di mentire, sua e del suo alter ego filmico, Affleck ci ha restituito un frammento, storicamente significativo, della realtà che il suo cinema punta a indagare. La credibilità del risultato sta nella sua (notevole) forza cinematografica.

Movieplayer.it

4.0/5