Jacques Audiard presenta Un sapore di ruggine e ossa

Dopo l'applaudita proiezione al Festival di Cannes, l'intenso film di Audiard si prepara ad approdare sui nostri schermi; in un interessante incontro, il regista francese ci ha parlato della genesi della pellicola e di come essa si inserisca nella sua filmografia.

C'era molta attesa, e curiosità, intorno alla nuova prova registica di Jacques Audiard, chiamata a bissare il successo di un'opera universalmente apprezzata come Il profeta. La proiezione all'ultimo Festival di Cannes di Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d'os in originale) ha mostrato una pellicola apparentemente lontana dal dramma carcerario che diede notorietà internazionale al regista; la claustrofobica ambientazione della prigione lascia il posto a scenografie composite, in cui i cupi paesaggi metropolitani si alternano alla spiaggia, al blu del mare e alla neve delle ultime sequenze; la durezza della storia di un uomo senza libertà lascia il posto a quella (non meno radicale) di un corpo menomato, che diventa esso stesso prigione per la persona che lo abita. La claustrofobia è quella sofferta dall'anima della protagonista Stephanie, interpretata da un'eccezionale Marion Cotillard, che trova (e dà) sostegno a un altro personaggio borderline come l'ex pugile Ali, a cui presta il volto l'attore belga Matthias Schoenaerts. Il regista francese si rivela quindi, in realtà, coerente nel proporre caratteri sempre in bilico tra il baratro e la rigenerazione, tra una caduta imminente e il sogno di un riscatto quasi impossibile. Lo fa, ancora una volta, ispirandosi a un testo letterario, la raccolta di racconti dell'autore statunitense Craig Davidson intitolata Rust and Bone, trattata tuttavia in modo del tutto peculiare. Proprio della genesi del suo film, della sua modalità di approccio al materiale narrativo altrui, e di come questa sua nuova opera si inserisca nella sua filmografia, il regista ci ha parlato in un'interessante incontro, che precede l'uscita nelle sale italiane del film (prevista per il 4 ottobre).

Il film è ispirato a una raccolta di racconti. Come si è approcciato a questo materiale letterario?
Jacques Audiard: Il punto di partenza è stato il mio desiderio di girare una storia d'amore, dopo che ne Il profeta avevo mostrato uno spazio chiuso, senza luce. Quando ho scoperto la raccolta di racconti di Craig Davidson, ho capito che poteva servirmi a contestualizzare questo desiderio, anche se le storie lì narrate non hanno direttamente a che fare col film: i personaggi stessi sono diversi, nel libro ad esempio l'addestratrice è un uomo e perde una sola gamba. Il mio lavoro di adattamento è stato quello di usare il contesto dei racconti per ambientarvi la mia storia.

Anche Tutti i battiti del mio cuore era un adattamento, precisamente un remake. A volte, pare che lei conosca i personaggi di queste storie meglio degli autori originali...
Però, per carità, non diteglielo! In questo caso, Davidson ha visto il film al Festival di Toronto, ed è sembrato a lui, come a noi, che fosse un po' come il racconto mancante del libro. In realtà, il film è ispirato in particolare a due dei racconti, anche se notevolmente riadattati. L'adattatore è proprio colui che, data un'opera di partenza, coglie quel qualcosa che manca e cerca di tirarlo fuori: proprio Tutti i battiti del mio cuore, per esempio, si ispira a un film (Rapsodia per un killer) che mi piaceva molto, ma che trovavo in qualche modo imperfetto. Riscrivendo la storia, ho cercato di migliorarla: so che questo può suonare presuntuoso, ma è quello che faccio quando adatto materiale altrui.

Qual è, in questo film, il rapporto tra la sceneggiatura e la messa in scena? Sembra, in sé, un film molto "scritto".
E' vero, lo è. Lavorando con il co-sceneggiatore, abbiamo immaginato un film che fosse "scritto" ma in cui ogni scena non anticipasse la successiva: un po' il contrario di ciò che succedeva in Sulle mie labbra. Dovevamo calibrare il ritmo del film, usare una recitazione e una regia più o meno stilizzate a seconda della scena, ma soprattutto non dare l'impressione di una sceneggiatura troppo presente: i punti di raccordo dovevano restare nascosti.

Il profeta aveva immagini che si potevano definire "brutali". Anche qui c'è brutalità, in un certo senso, ma è in qualche modo più delicata. Com'è riuscito a raggiungere questo risultato? Il profeta era un caso particolare... e anche questo film lo è. La cosa principale, qui, è che abbiamo lavorato con un'attrice su un personaggio femminile: abbiamo filmato ciò che non potevamo filmare nel film precedente, ovvero un corpo di donna. Lo scopo era fare in modo che due persone si rivelassero attraverso l'amore, e attraverso i loro corpi.

L'interpretazione di Marion Cotillard è molto intensa. Il personaggio di Stephanie è stato pensato per lei?
No, io quando scrivo non penso mai agli attori: inizio a pensarci una volta finita la sceneggiatura. Non avevo visto molti film di Marion, ma ci sono state due-tre scene di La vie en rose che mi hanno fatto venir voglia di lavorare con lei: ha un particolare insieme di virilità e femminilità, ma da quest'ultima manca il lato dolce. Quando la vedo recitare, trovo qualcosa che mi ricorda le grandi star del cinema muto.

Nei suoi film, ricorrono sempre personaggi che hanno una qualche mancanza: fisica, come in questo film e in Sulle mie labbra, o di libertà, come ne Il profeta. E' una scelta voluta?
Sono d'accordo con quest'analisi, ma a dire il vero al parallelismo con Sulle mie labbra non ho pensato subito: l'ho percepito solo in fase di montaggio, e quando ne ho parlato alla montatrice lei mi ha detto "ma sei scemo?", tanto la cosa doveva esserle sembrata evidente. Forse quello della "mancanza" per me è un espediente di sceneggiatura, ma sinceramente non lo so, non ci ho mai pensato coscientemente. In questo caso, comunque, nella "femminilizzazione" del personaggio del libro ho visto un notevole valore erotico... forse perché sono un vecchio feticista! Il cinema, comunque, è da sempre molto efficace nel far emergere il potenziale erotico di un personaggio. Sottolineo, comunque, che la vera "mancanza" che emerge dal film, per tutti, è quella dell'amore.

L'impressione è che il film viva un po' per quella singola scena di sesso, con il corpo di Ali che sovrasta quello di Stephanie, e il contrasto potenza/debolezza che ne origina...
E' vero, quello è il punto di svolta fondamentale della trama. In fase di sceneggiatura, l'abbiamo descritto come una "sirena su una roccia".

Parte della forza, e del respiro, del suo cinema, stanno nella scoperta del dettaglio. Come lavora su questa sorta di "voyeurismo artistico" facendo in modo che non diventi morboso?
Tra voyeurismo e morbosità non si è mai ben sicuri di individuare il confine... si dice che "Dio è nel dettaglio", e nell'arte in effetti è il dettaglio che fonda il criterio della verosimiglianza. In questo film, per esempio, quel tatuaggio sul corpo di Stephanie ci dice che lei ha preso coscienza di tutto: del suo corpo mutilato, ma anche della sua capacità di esprimere ancora erotismo, e amore.