Elliott Gould al TFF presenta la retrospettiva New Hollywood

Abbiamo incontrato il grande attore americano ospite del Torino Film Festival per incontrare giornalisti, pubblico, docenti di cinema e studenti del DAMS e parlare della retrospettiva dedicata al Nuovo cinema americano, degli anni d'oro di Hollywood, del suo rapporto strettissimo con Robert Altman e con i registi che hanno animato quello che è stato forse il decennio cinematografico che ha segnato un'evoluzione epocale.

Erano tanti anni che il Torino Film Festival cercava di proporla al suo affezionatissimo e appassionato pubblico e quest'anno, grazie alla perseveranza e all'impegno di Emanuela Martini, il tentativo è andato a buon fine. Si intitola New Hollywood - Il nuovo cinema americano tra il 1967 e il 1976 ed è una retrospettiva che si articola in due edizioni (questa e la successiva 2014) che porterà nella città i grandi capolavori del cinema contemporaneo nonché i film d'esordio di registi che si sarebbero presto trasformati in grandi star mondiali. Qualche titolo? Da capolavori come Cinque pezzi facili, Mean Streets, Harold e Maude, I selvaggi, Pat Garrett e Billy the Kid e Sugarland Express a pellicole molto meno note come Electra Glide, Un uomo a nudo, Gli amici di Eddie Coyle e Per cento chili di droga. Una sezione dedicata dunque ai miti originati dalla controcultura ed elaborati nel corso di un decennio da quelli che erano allora dei giovani talenti del cinema americano formatisi in tv o provenienti dal cinema indipendente; una sezione del Torino Film Festival che da spazio alle immagini di un cambiamento stilistico e immaginario radicale attraverso il quale l'industria cinematografica hollywoodiana si sarebbe definitivamente risollevata. Ospite d'eccezione di questa 31ª edizione e rappresentante di quell'epoca ricca di stupore cinematografico il grande Elliot Gould, protagonista di film indimenticabili come Il lungo addio, MAS*H, Capricorn One e Bob & Carol & Ted & Alice, film che gli valse la nomination all'Oscar e che Gould presenterà in sala in questi giorni insieme a California Poker di Robert Altman, Piccoli omicidi di Alan Arkin.

Ci racconta il suo incontro con Robert Altman ecome le ha proposto di recitare in Mash? E' vero che lui le voleva affidare il ruolo di Duke Forrest ed è stato lei a proporgli di interpretare quello di Trapper John McIntyre?
Ricordo benissimo il giorno che mi fece leggere il copione di Mash, ci siamo visti, abbiamo parlato del ruolo di Duke e nonostante io non avessi nessuna intenzione di mettere in discussione la sua proposta ed avessi una grandissima voglia di lavorare con lui alla fine ho trovato il coraggio di propormi nel ruolo di Trapper. Ricordo che le mie parole furono "Se per caso tu non avessi ancora trovato un attore per il ruolo di Trapper io mi vorrei proporre perché penso di avere la giusta energia per riuscire a farlo nel migliore dei modi". E lui accettò subito.
L'impatto col metodo di lavoro di Altman non dev'essere stato facile, è vero che sia lei che Donald Sutherland avete avuto qualche problemino?
Ricordo che all'epoca il mio rapporto con Donald non era proprio idilliaco, non avevamo legato e c'era tra noi una distanza palpabile. Dopo avermi scritturato Altman ci consigliò di uscire a pranzo insieme, solo io e Donald, e da quel momento tra noi tutto cambiò, scattò la scintilla e si instaurò tra noi una chimica davvero unica. Prima di Mash avevo fatto solo tre film e non avevo molta esperienza di registi e modi di lavorare sul set. Sentivo parlare di caos fertile, della coralità vista come perdita di punti di riferimento nella recitazione. Non sapevo esattamente cosa fare ed ho dovuto studiare molto per creare anche dentro di me questo grande caos che secondo lui avrebbe dato vita al film. Altman mi ha dato tanta libertà e io me la sono presa, abbiamo costruito poco alla volta e insieme un rapporto fiducia di cui entrambi avevamo bisogno.
Parlando de Il lungo addio Robert Altman ha dichiarato più volte che secondo lui Elliott Gould era l'unico Philip Marlowe possibile in quegli anni. A lei l'ha mai detto direttamente?
Sì, ricordo le sue parole quando mi propose il copione. Lui era in Irlanda per terminare le riprese del suo film Images e un giorno mi chiamò al telefono per chiedermi cosa pensassi del personaggio e della sceneggiatura de Il lungo addio. Io ovviamente gli risposi che era da tempo che aspettavo di recitare in un film come quello, che era il mio sogno, e lui con la voce piena di enfasi mi disse "tu sei quel personaggio caro Elliott".
Noi pensiamo a quel periodo cinematografico come un periodo di grande libertà creativa, di sperimentazione e di profonda vicinanza tra interpreti e registi. Ricorda qualche esempio rappresentativo di questo aspetto nella sua lunga carriera di attore?
Nella mia carriera ho sempre cercato di valutare bene le possibilità che mi venivano offerte, di non mettere paletti, di mettermi in gioco in diversi progetti con diversi autori e in storie diverse, solo così ho potuto imparare e conoscere ogni volta qualcosa di nuovo di questo mestiere. Quando ho girato Ocean's Eleven mi sono trovato a dover spiegare a George Clooney cosa ci fosse dietro alla famosa scena de Il lungo addio in cui, improvvisando, mi sporcotutta la faccia con l'inchiostro delle impronte digitali. Ricordo che fu una sorpresa per me quella scena, provai a non fermare la recitazione e Altman, lasciandomi tutta la libertà di cui avevo bisogno, ha dimostrato tutta la fiducia che riponeva nei miei confronti. Voleva dire che per lui ero pronto per le luci dei riflettori perché per noi attori la gestione del tempo è fondamentale ed io ho dimostrato di saper improvvisare. E' stato davvero molto gratificante.
Cosa ricorda del suo lavoro con Ingmar Bergman?
Ho lavorato con lui ne L'Adultera e quel che ricordo di quell'esperienza è ciò che mi disse prima di iniziare le riprese "io non ti condurrò mai su un sentiero sbagliato". Ricordo che mi parlava in inglese suggerendomi di interagire di più con lui, di fargli arrivare con lo sguardo, attraverso la macchina da presa, la mia esperienza di attore.
A proposito della sua esperienza sul set con Steven Soderberg, ci racconta come si è trovato a recitare in un film di gruppo con così tanti attori famosi?
Considero Steven Soderbergh un regista anomalo nel panorama hollywoodiano contemporaneo, un regista che ha dentro uno spirito molto vicino a quello degli autori del cinema americano degli anni '70. ricordo che quando vidi per la prima volta Sesso, bugie e videotape pensai che mi sarebbe davvero piaciuto debuttare come attore in un un film così. Dovevamo incontrarci per parlare della mia partecipazione al film e ricordo che lui si presentò in anticipo all'appuntamento mentre io arrivai puntuale al secondo, fu una sorpresa positiva perché anche io quando ero giovane facevo lo stesso. Ricordo che in quel frangente gli chiesi "ma il tuo cognome è un cognome che nasconde origini ebraiche?". Lui mi rispose "no, io sono svedese". Cercai di fargli capire che l'essere di nazionalità svedese non esclude la possibilità di essere ebrei ma poi ci rinunciai, non volevo rischiare di metterlo in imbarazzo e perdermi così la possibilità di lavorare con lui. So che recentemente ha dichiarato di voler chiudere la sua carriera di regista, e penso che sarebbe un vero peccato.