Dario Argento: 'Il mio Dracula, espressionista e romantico'

In occasione dell'uscita in sala di Dracula 3D, già visto al Festival di Cannes, abbiamo fatto una chiacchierata telefonica con Dario Argento, che ci ha parlato della realizzazione del suo film e, più in generale, dello stato di salute del genere horror, in Italia e all'estero.

Un po' di emozione c'è stata, chi scrive deve riconoscerlo, nell'approcciare (sia pur solo telefonicamente) un regista come Dario Argento. Il cineasta romano, infatti, oltre ad essere stato per decenni punto di riferimento assoluto per un genere (l'horror) che nell'immaginario comune, nel nostro paese, si identifica tout court con lui, resta un mito per più di una generazione di spettatori e di cinefili; una specie di "faro" anche per chi, in un panorama appiattito, povero di idee e proposte nuove qual è quello del nostro cinema attuale, cerca di tener viva una tradizione di assoluta rilevanza come quella del cinema di genere. Una tradizione che, nel nostro paese, ha vissuto di grandi nomi e di risultati artistici importanti, ma che ora viene relegata alla realtà underground, a un sottobosco di giovani autori (a volte molto dotati) costretti all'invisibilità o all'attenzione prioritaria al mercato estero. In un panorama come questo, e dopo le note vicissitudini del suo recente Giallo, Argento ha compiuto un'operazione rischiosa come l'adattamento del classico di Bram Stoker; quasi una doppia sfida, a chi considera ormai fuori tempo massimo una nuova incarnazione di Dracula (dati i cambiamenti subiti negli ultimi anni, anche a livello di senso comune, dalla figura del vampiro) e soprattutto a chi ha considerato, finora, la sua stessa carriera come ormai condizionata da un'irresistibile declino.

Pur avendo noi stessi espresso in passato critiche (anche severe) sulle più recenti prove registiche di Argento, abbiamo apprezzato la fantasia, l'inventiva e l'amore per il cinema (e per tutto l'immaginario che il film porta con sé) che trapelano da Dracula 3D: questa versione stereoscopica delle gesta del Conte ci è sembrata restituire linfa al personaggio e contemporaneamente qualità e sostanza al cinema del regista, ponendosi così come una doppia scommessa vinta.
Proprio sul film e sulla sua genesi, ma anche su alcuni interessanti argomenti collaterali come lo stato di salute del cinema dell'orrore, in Italia e nel mondo, si è dunque incentrata la nostra conversazione telefonica, con un Argento cordiale e disponibile.

Il mito del vampiro si è ormai adattato alla modernità, con succhiasangue che abitano le nostre metropoli, hanno storie d'amore, sono tecnologici, a volte rinunciano persino alla propria natura (come quelli della serie True Blood). Che presa può avere secondo te, per un pubblico moderno, un film su Dracula?
Dario Argento: Per me è stato un modo di ripescare il classico, dopo tante variazioni e divagazioni sulla figura del vampiro: abbiamo avuto il vampiro bambino, il vampiro che vive nella città, il vampiro romantico... io volevo tornare alla figura classica del vampiro. Ho girato con il film in tanti festival ed è piaciuto molto: quest'idea del ritorno al classico piace, e poi diciamocelo, tutte queste variazioni hanno anche un po' stancato. Questa "retromarcia" verso il classico è piaciuta molto.

Hai avuto timore nell'approcciarti a quello che è un classico non solo del romanzo gotico, ma anche della narrativa in generale?
Certo, un pochino di timore c'è stato: infatti a questo film ho pensato per quasi un anno, prima di iniziarlo. Ciò che mi ha fatto riflettere, soprattutto, è stato il dubbio su quale sarebbe stato il modo giusto per approcciarmi a questo personaggio.

Il tuo film, secondo te, somiglia a qualcuna delle precedenti incarnazioni cinematografiche di Dracula?
Secondo me si pone nel solco dei vampiri più classici, come quelli della Hammer. Mi sono anche ispirato a una figura di vampiro un po' surrealista e un po' espressionista, ma anche con dei toni di romanticismo: una componente, quest'ultima, che recentemente era stata un po' dimenticata.

Com'è stato scelto l'interprete che doveva vestire i panni del Conte?
C'è stato un lungo periodo di ricerca: sono stato in Inghilterra e negli Stati Uniti, ho incontrato tanta gente. Tra i tanti, ho visto anche il mio vecchio amico Thomas Kretschmann, con cui avevo già fatto La sindrome di Stendhal. Dopo aver incontrato altre persone, mi è tornato in mente Kretschman, che mi è sembrato molto adatto: anche per la furia che esprime sullo schermo, una componente che mi piaceva molto e che volevo portasse nel film.

Com'è stata la collaborazione con Rutger Hauer? Pensi che questo ruolo, il primo di una certa importanza dopo anni, possa rilanciare la sua carriera?
Se possa rilanciare la sua carriera o meno non so, è un problema che non mi sono posto. Ho pensato comunque che sarebbe stata una cosa buona, per il film, questa sua monumentalità: lui è un po' un monumento di se stesso, a livello di presenza fisica e di potenza. Lo ritengo davvero un attore importante, e infatti penso che la sua presenza sia tra i punti di forza del film.

Nel film è evidente la mano di Luciano Tovoli alla fotografia. Com'è nata questa nuova collaborazione, la prima dopo oltre 30 anni?
E' nata nell'ottica di un ritorno alla classicità, quasi alla favola, visto che quella di Dracula in fondo è una specie di favola, o comunque di racconto fantastico. Ho pensato che sarebbe stato giusto anche tornare a quel tipo di colori, a quei toni accesi che lui sa rendere così bene. Ci siamo reincontrati con grande piacere, lavorare di nuovo con lui è stato molto bello.

La colonna sonora, come in altri tuoi film recenti, è firmata qui dal solo Claudio Simonetti. Credi che i Goblin verranno riformati, in futuro, e che potranno esserci ulteriori collaborazioni?
Loro ogni tanto fanno qualche concerto insieme, anche se in una formazione ridotta, con due o tre membri del gruppo originale. A quanto so, comunque, non sono così contenti di lavorare insieme: è un po' quello che succede a tutti i gruppi musicali, che hanno il destino di stare insieme per un po' e poi dividersi.

Parliamo del 3D. Presentando il film ti sei detto entusiasta di questa tecnologia. Perché, secondo te, in Italia non ha ancora attecchito? Pensi le cose possano cambiare, in un prossimo futuro?
Secondo me il motivo principale è che è una tecnologia molto costosa. Richiede anche tempi più lunghi, l'uso di più macchine da presa, una sinergia di elementi che lo rendono tuttora difficile da usare. L'alternativa sarebbe girare in modo normale e riconvertire successivamente il film in 3D, ma il risultato in questi casi è deludente: l'effetto non è buono e dà anche fastidio agli occhi. Il vero 3D è quello usato da Martin Scorsese per Hugo Cabret: ma è tuttora molto costoso, ha tempi di lavorazione lunghi e presenta inconvenienti come la pesantezza della macchina da presa. Ci sono degli ostacoli, quindi, ma penso che, con l'adeguata disponibilità economica, il 3D resti un'ottima tecnologia.

Nel 1989 ti sei accostato a Edgar Allan Poe con Due occhi diabolici, nel 1998 hai diretto Il fantasma dell'Opera, ora ti sei cimentato con Dracula. Tornerai di nuovo ad adattare un classico?
Questo sinceramente non lo so: sono passati molti anni tra uno e l'altro. Per ora, comunque, non è nei miei progetti l'adattamento di un altro classico.

All'inizio dell'anno si è parlato di un tuo progetto televisivo per la Rai, intitolato La quarta dimensione. Cosa puoi dirci a riguardo?
Il progetto è ancora in piedi, ma è condizionato da alcuni problemi interni della Rai. Tuttora non siamo in grado di dire quando e se potrà partire.

Una curiosità. Masks di Andreas Marschall è un omaggio esplicito al tuo cinema, e in genere a tutto il giallo italiano degli anni '70. L'hai visto, e se sì, cosa ne pensi?
Sinceramente non l'ho mai visto, non lo conoscevo neanche. Cercherò senz'altro di vederlo.

Pensi che il periodo che stiamo vivendo, di grande incertezza economica e sociale, favorisca il riemergere dell'horror, e in generale di tematiche cupe nel cinema e nell'arte?
In Italia ciò non sta succedendo, a differenza da ciò che accade in altri paesi come la Francia, in cui si producono film come Martyrs, la Spagna, o gli stessi Stati Uniti. Anche in Asia, in paesi come Taiwan, la Corea del Sud e il Giappone, si girano film molto interessanti. In Italia invece, non so perché, continuiamo a girare commedie.

Questo porta all'ultima domanda. Perché, secondo te, l'horror italiano (e più in generale il cinema di genere) sta vivendo ormai da decenni una perenne crisi?
Il problema è che non è desiderio dei produttori investire su generi come l'horror, loro vogliono film che facciano ridere, che permettano di fare incassi sicuri e rapidi. Eppure, c'è una realtà di giovani che è interessata al genere: per esempio, la maggior parte dei cortometraggi che vengono realizzati nel nostro paese è di genere horror. Il problema è che poi gli stessi giovani, arrivati a girare dei lungometraggi, sono spesso costretti a ripiegare sulla commedia, perché ai produttori l'horror non interessa. Eppure, per il genere ci sarebbe sia un pubblico potenziale, sia una realtà di giovani autori con una predisposizione per certe tematiche.