Asghar Farhadi: 'Il mio cinema morale, avverso ai cliché'

Abbiamo incontrato il regista iraniano, giunto a Roma per presentare il suo nuovo, bellissimo film: un incontro in cui Farhadi ha potuto sviscerare, in parte, i temi che animano la sua intera filmografia.

Il cinema di Asghar Farhadi, al suo sesto lungometraggio, si fa sempre più puro, cristallino ed essenziale nello sguardo, ma allo stesso tempo ricco di una complessità umana strabordante. Le sue storie, i suoi personaggi, le emozioni che emergono dalle loro vicende, compongono affreschi cinematografici sempre più potenti; con una struttura narrativa che imprigiona letteralmente lo spettatore lasciandolo senza fiato, riuscendo a coinvolgerlo in modo così naturale da riuscire a celare quasi la grande complessità, tematica e di racconto, che il regista esprime. Il passato, da questo punto di vista, è finora il suo film migliore, quello in cui la sua ricognizione dei rapporti umani, e dei concetti di causalità, responsabilità e colpa, raggiunge il suo livello più alto.
Già presentato con successo nel corso dell'ultimo Festival di Cannes, il film di Farhadi si prepara ora ad approdare nelle nostre sale: per l'occasione, abbiamo incontrato il regista, giunto a Roma a presentare il suo lavoro, che ci ha parlato dei suoi temi e dei suoi legami coi suoi film precedenti.

Lei ha detto in passato che il film ha una "scrittura intuitiva", ma resta il fatto che, alla fine, i dubbi aumentano di complessità piuttosto che diminuire. Il suo sembra, da questo punto di vista, un cinema morale. È d'accordo sulla definizione?
Asghar Farhadi: Sì, ma non nel senso di un cinema morale che esprima dei cliché. Una cosa che non voglio fare è giudicare ciò che è giusto o sbagliato: a me piace che la gente ragioni, si ponga delle domande.

Nei suoi precedenti film abbiamo visto delle famiglie iraniane, qui c'è invece una famiglia mista, multietnica. L'istituzione familiare cambia faccia, a seconda dei contesti geografici?
Le famiglie hanno modi di esprimersi diversi, a seconda della cultura; ma gli stati d'animo di ogni componente sono uguali, a prescindere dal paese di origine. L'amore e l'odio sono sentimenti universali, anche se vengono espressi in modi differenti.

Alla luce dello sguardo cupo, problematico che i suoi film esprimono su di essa, lei può dire di credere nella famiglia?
Ci credo, ma, da quello che osservo, credo che la definizione stessa di famiglia stia cambiando. La stessa condizione dei suoi componenti è cambiata: prima, per esempio, era solo l'uomo ad occuparsi dell'aspetto economico, mentre ora i ruoli sono pari. C'è un altro tipo di equilibrio. Spesso i problemi derivano proprio dal fatto che i singoli componenti, negli ultimi anni, hanno cambiato identità e funzione. Con questo non voglio dire che bisogna conservare un vecchio modello di famiglia: rilevo soltanto che la situazione della famiglia in quanto tale sta cambiando.

Nel film c'è un finale aperto: ci si chiede se la moglie di Samir gli abbia stretto la mano o no.
E' quello che vorrei sapere anch'io. Ma, prima, abbiamo visto la lacrima scendere sul suo volto: perché non diamo fiducia ad essa? Non è forse proprio questo, questa mancanza di fiducia tra i personaggi, che si riflette poi nello spettatore? Nel film c'è talmente tanto dubbio, che anche noi ci poniamo le loro stesse questioni. Se avessi fatto vedere la mano che si muoveva, qualcuno probabilmente avrebbe detto: "Ma se avesse aperto anche l'occhio, sarebbe stato più sicuro che l'ha sentito".

La sequenza finale fa pensare anche a Ordet - La parola di Carl Theodor Dreyer. Forse vi accomuna lo scetticismo sulla capacità dell'uomo di decifrare razionalmente il mondo circostante. E' così?
Quando si analizza un'azione, ci viene chiesto il motivo per cui l'abbiamo compiuta: ma, in realtà, spesso prima si compie un'azione, e poi ci si chiede il motivo. E' come in tribunale, in cui si ricostruiscono i motivi a posteriori. Il protagonista del film non ragiona sul perché: e spesso noi stessi non capiamo il perché delle nostre azioni. Ma, ciononostante, vengono sempre gli altri a giudicarci.

Il personaggio più attraente è proprio quello di Ahmad. Ma perché alla fine sceglie di andarsene?
Se facciamo attenzione, il perché lo capiamo: sembra abbia che in passato abbia avuto una depressione. Lo vediamo che è sempre iperattivo, deve costantemente fare qualcosa. E ha vissuto in un posto dove al contrario non aveva niente da fare: lì, non poteva essere lui. Alla fine non ha altra scelta che tornare: quella donna, ormai, ha iniziato un'altra vita. E' un personaggio amletico, roso dai dubbi: in una scena, il suo amico ristoratore gli dice: "Non puoi stare con piede di qua e uno di là dal fiume, perché prima o poi il fiume si allarga".

Nel film vediamo personaggi compartecipi di un dramma collettivo, ma è molto difficile attribuire a uno di loro delle colpe. Forse è un'entità immateriale come il destino a manovrare le loro vite?
Io non credo nel destino, non nel senso della predestinazione. Credo invece che le condizioni che un essere umano si trova intorno, possano portarlo ad essere un perdente. Nel film, più che il destino, c'è un effetto domino: un personaggio fa una cattiveria ad un altro, il secondo ne fa un'altra ad un terzo, e da lì il processo è innescato: alla fine, cadono tutti. Tutto nasce da quattro anni prima, da quando Ahmad se n'è andato: il resto è conseguente.

Nel film, la verità oggettiva e la responsabilità sembrano legate a doppio filo. L'attribuzione di responsabilità è una chimera, perché la stessa conoscenza dell'evento è una chimera. La messa fuori campo destabilizza i personaggi.
Noi cerchiamo la responsabilità di qualcosa che semplicemente non troviamo, perché non c'è più, è accaduta nel passato. La stessa cosa succede in About Elly e in Una separazione.

La verità e la menzogna, quindi, non sono categorie assolute?
Io non parlerei proprio di menzogna; a volte, la cosiddetta "menzogna" è un nascondere la verità, a volte è una bugia a fini di bene. Credo serva un altro termine.

Nei suoi ultimi due film, ci sono due scene che raccontano visivamente più di quanto si racconta a parole: all'inizio di Una separazione, ci sono due figure che si parlano attraverso un muro senza vedersi. Qui invece c'è un vetro, ma la distanza sembra la stessa.
Per me il muro è il simbolo della separazione, e della distanza che c'è in generale tra le persone.

Avevamo visto Tahar Rahim in un ruolo abbastanza diverso da quello interpretato qui, ne Il profeta. Perché lo ha scelto per il ruolo di Samir?
Ho apprezzato, in quel film, la sua recitazione fresca, in un certo senso simile a quella dei "non attori". Mi piace il dubbio che ha sempre nello sguardo.