Recensione Nauta (2010)

L'esordio alla regia di Guido Pappadà tradisce chiaramente la sua formazione e il suo gusto per l'immagine, con una fotografia molto elaborata e un uso interessante ed espressivo del colore; il tutto, per rappresentare un viaggio che è innanzitutto dentro sé stessi.

In viaggio verso il cambiamento

Bruno, quarantenne, è un professore universitario e antropologo atipico. Il suo terreno è lo studio della cultura umana, ma l'ottica dalla quale tratta l'argomento è personale, peculiare, debitrice di antiche filosofie (il taoismo) quanto di una visione animistica della società. Bruno è però anche un uomo ferito, che la recente fine del suo matrimonio ha ridotto all'apatia: le sue lezioni sono ormai vuoti contenitori, le sue ore libere si trascinano stanche e sempre uguali a sé stesse. Ma qualcosa sta per cambiare: la telefonata di Paolo, un suo vecchio amico, riesce a squarciare il torpore di Bruno e a risvegliare in lui l'interesse per le sue ricerche. Sull'isola di La Galite, a quanto pare, si è verificato un fenomeno misterioso, scientificamente inspiegabile, descritto così raramente nelle cronache da essere considerato alla stregua di una leggenda. Un fenomeno, però, la cui documentazione potrebbe cambiare per l'uomo l'approccio alla scienza, alla natura, e forse alla vita stessa. Di nuovo con uno scopo concreto, Bruno riesce a ottenere un finanziamento dall'università e a mettere in piedi una squadra di ricerca per recarsi sull'isola: questa sarà composta dal capitano e vecchio amico Davide, dal marinaio Max, dalla biologa Laura e dal sommozzatore Lorenzo. La destinazione (forse) rappresenterà molto più di una semplice isola, e anche molto più della realizzazione di una ricerca scientifica.

Il napoletano Guido Pappadà, ex regista televisivo e creativo del digitale (è sua una società, la Dyte Digital, che si è occupata della post-produzione di vari film italiani) dirige con questo Nauta il suo film d'esordio. Un film in cui, malgrado il budget ridotto (ma la pellicola ha ottenuto un importante finanziamento statale) si nota molto la formazione del regista e il suo gusto per l'immagine, con una fotografia molto elaborata e un uso interessante ed espressivo del colore, esaltato dai paesaggi marini in cui il film in gran parte si svolge. Le tonalità di blu e giallo, i tramonti e gli scenari del mare e dell'isola in cui la storia si conclude, le suggestive, quasi pittoriche inquadrature notturne, le brevi riprese subacquee a esplorare un mondo affascinante e incontaminato: parliamo senz'altro di un'opera dall'impianto visivo ben costruito e potente, in cui regista e staff tecnico hanno avuto il merito di massimizzare da questo punto di vista i pochi mezzi a disposizione. L'intento programmatico è chiaro, così come l'idea alla base del film: l'isola come approdo mitico di un viaggio che è innanzitutto dentro sé stessi, momento di catarsi e liberazione, possibilità di una rigenerazione che parta dal personale per abbracciare i rapporti sociali (piccoli e grandi) nel loro complesso. Non è un caso che il film sia ispirato, nell'idea iniziale, al libro di James Retfield La profezia di Celestino, testo di riferimento per tutto il movimento New Age; e non è un caso l'ambientazione durante i primi anni '90, periodo in cui certi temi, con l'approssimarsi del nuovo millennio, cominciavano ad essere particolarmente sentiti.

I punti di riferimento del film, nonostante il carattere locale dei suoi personaggi, sono variegati e trasversali: il tema dell'armonia uomo/natura e la speranza di un nuovo equilibrio tra questi fanno venire in mente, facendo le dovute proporzioni, gli anime di Hayao Miyazaki e pellicole come Avatar di James Cameron; l'isola come luogo mitico e rigenerante, forse persino foriero di miracoli, rimanda alle suggestioni (da poco consegnate alla storia) di una serie televisiva come Lost. Il regista si sforza tuttavia, in gran parte riuscendoci, di trovare una sua cifra personale nell'approccio a questi temi, rallentando volutamente il ritmo della narrazione, quasi a cullare lo spettatore sulle stesse onde sulle quali si muove l'antica imbarcazione usata dai protagonisti. Nel viaggio di questi ultimi, sono i caratteri e le dinamiche che si instaurano nel gruppo ad emergere, le ferite nell'anima dell'antropologo e la rudezza apparente del suo amico capitano, il cinismo di Lorenzo e il divertente outing del gay Max. Una comitiva improvvisata che si cementerà sempre più, man mano che il viaggio si avvicina alla sua conclusione. Il problema principale del film, tuttavia (ed è un problema innanzitutto di sceneggiatura) sta proprio in una resa a volte non convincente dei caratteri, e in una loro scarsa integrazione con i temi, più generali, che la pellicola vuole trattare. Gli stereotipi affiorano fastidiosamente in più di un dialogo (specie quelli che coinvolgono i due personaggi di Lorenzo e Laura) mentre lo scopo del viaggio e la sua reale portata sembrano sentiti, in fondo, più che altro dal protagonista Bruno.

La squadra di attori messa insieme dal regista fa comunque il suo lavoro, a cominciare da un espressivo David Coco nel ruolo principale, e da un Luca Ward evidentemente a suo agio in un ruolo a lui molto affine, per arrivare al simpatico Massimo Andrei, anche co-autore dello script. E' in un certo senso un peccato, quindi, che la creazione dei personaggi non sia stata più attenta e sfaccettata, e che alcuni dialoghi non risultino proprio all'altezza delle potenzialità del soggetto. Nonostante questo, questo Nauta coinvolge e affascina per larghi tratti, e rappresenta senz'altro, pur nei suoi limiti, un esempio di cinema indipendente capace di sfruttare in modo espressivo (e intelligente) le nuove tecnologie. Un segnale incoraggiante per un cinema italiano sommerso che sempre più agogna, giustamente, spazi e visibilità distributiva.

Movieplayer.it

3.0/5