Recensione Kill Me Please (2010)

Cinema indipendente orgogliosamente pulp (sì, per una volta Quentin Tarantino potrebbe essere citato non a sproposito) che usa gli strumenti del cinema d'autore per inscenare un balletto macabro, in cui lo spettatore mantiene sempre, magari suo malgrado, un irriverente ghigno sul volto.

Dolce morire

In una clinica di un paesino montano del Belgio, si offre ai pazienti un singolare servizio: questi ultimi vengono aiutati a morire. A gestire la clinica, il dottor Kruger, medico dalla personalità integerrima e fortemente dedito al lavoro, che aiuta gli avventori nel difficile passo. In un gelido inverno, in mezzo alla neve, un campione di varia umanità si ritrova nella struttura: ma a mettere a rischio il lavoro di Kruger arriveranno presto gruppi di attivisti armati, che si oppongono all'attività della clinica.


La trama di questo Kill Me Please, presentato in concorso al Festival di Roma, potrebbe far pensare a un tipico film d'autore europeo, che magari affronti temi difficili con un punto di vista anche provocatorio, anticonvenzionale, ma pur sempre con un tono improntato a una certa serietà. Potrebbe venir mente un film alla Haneke, insomma. I primi minuti del film, in effetti, rafforzano questa ipotesi, anche grazie alla fotografia in bianco e nero e alle scenografie raggelate, da set ai confini del mondo, posto in mezzo alla neve e isolato da tutto e tutti. Niente di più sbagliato: gradualmente, ma in modo sempre più netto, il regista Olias Barco modifica il tono del film trasformandolo in una commedia nerissima, sempre più folle ed estrema, che si fa beffe dei tabù (anche la necrofilia è presente, trasformata in un lavoro come un altro, un'occupazione retribuita) e spudoratamente strappa risate parlando di morte, di tendenze suicide, di depressione e perdita della speranza.

Il modo in cui il regista tratta questi argomenti è quello dello sberleffo, della provocazione iconoclasta, dello sputo punk. La riflessione ragionata, il film a tesi, la stura per le disquisizioni sociologiche non abitano qui. Quello che vediamo è piuttosto una sfilata di personaggi caricaturali, ma intelligenti nel loro ricalcare tipi umani portati all'estremo (la studentessa depressa, il giovane attratto dalla morte fin da bambino, l'attore ipocondriaco, la cantante trans che ha perso la voce) che danno vita a dialoghi grotteschi, surreali, e che con il loro interagire fanno della morte e della loro determinazione a morire un argomento come tanti, di cui si può ridere o piangere. O a cui si può restare indifferenti, portando fino in fondo il nichilismo che il film, sotto sotto, esprime. Cinema indipendente orgogliosamente pulp (sì, per una volta Quentin Tarantino potrebbe essere citato non a sproposito: alcuni dei dialoghi hanno una matrice chiaramente tarantiniana) che usa gli strumenti del cinema d'autore (come il bianco e nero e l'assenza di musica extradiegetica) per inscenare un balletto macabro, in cui lo spettatore mantiene sempre, magari suo malgrado, un irriverente ghigno sul volto.
E proprio a proposito della fotografia, con quella grana esibita che rende l'immagine quasi disegnata, viene in mente un altro paragone, forse azzardato ma a nostro parere calzante: Clerks - Commessi, il folgorante esordio di Kevin Smith, aveva lo stesso look da cinema indipendente "guerrigliero", lo stesso tono genuinamente provocatorio, e non a caso si faceva anch'esso beffe del tabù della morte, in una scena ormai divenuta celebre. Certo, la carica generazionale espressa dal film di Smith è probabilmente inarrivabile, e per certi paragoni vanno fatte ovviamente le debite proporzioni: ma il carattere eversivo di un film come questo è evidente e non di quelli che si trovano tutti i giorni, e alla fine se ne esce gradevolmente destabilizzati e divertiti. Speriamo di sentir parlare ancora di Olias Barco.

Movieplayer.it

4.0/5