Recensione Dog Sweat (2010)

Hossein Keshavarz riesce a trasformare gli inevitabili limiti produttivi in mezzi espressivi, attraverso i quali veicolare un affresco della vita di Teheran che ha un forte taglio realistico e non esclude una scrittura molto accurata.

Istantanea di una società in movimento

Teheran, ai giorni nostri. Un ragazzo fa ritorno da un lungo soggiorno negli Stati Uniti, in cui si è appena laureato, e conosce una giovane che ha lo stesso nome della sorella, Katie. I due si innamorano ma non riescono a trovare un luogo dove passare un po' di tempo insieme. La sorella del ragazzo, femminista convinta, ha una storia con il marito di sua cugina, ma è corteggiata con insistenza da un compagno di università. Due omosessuali si scontrano con l'ottusità delle leggi e delle convenzioni sociali, e sono costretti a vedersi di nascosto; alla fine uno decide di sposarsi con un'aspirante cantante, frustrata nelle sue aspirazioni dalla legge iraniana che vieta il canto alle donne, l'altro sprofonda sempre più nella depressione. Tre amici passano le giornate a bighellonare e ad organizzare festini a base di liquori vietati e comprati sul mercato nero, finché la madre di uno di loro finisce in ospedale, investita da un pirata della strada. Durante la drammatica veglia in ospedale, il giovane discute aspramente con suo zio, conservatore convinto. Su tutto, una società in perenne mutamento, instabile, in cui operano spinte contrastanti, in cui la forza della tradizione si scontra sempre più duramente con istanze nuove, portate dall'occidente.

Ha la forza del miglior cinema verité e di certo documentarismo americano anni '70, il film di Hossein Keshavarz, girato clandestinamente prima delle elezioni del 2009, un film che racconta una società iraniana molto diversa da quella che abbiamo visto spesso attraverso i media (e al cinema). Quelli che erano di fatto dei limiti produttivi, dovuti alle precarie condizioni in cui la troupe ha dovuto lavorare, il regista è riuscito a trasformarli in mezzi espressivi, attraverso i quali veicolare un affresco della vita di Teheran che ha un forte taglio realistico: dando l'idea di vite colte nel loro quotidiano, in un fluire più generale di esistenze che si incontrano e si distaccano in una metropoli più che mai in trasformazione, in cui più che mai la precarietà e l'instabilità esistenziale sono la norma. E' proprio questo il senso del taglio dato all'immagine, frutto di riprese con una videocamera digitale, dell'assenza di musica extradiegetica, di un'estetica volutamente povera: nel film si respira un realismo che non è mai asettica riproposizione di una realtà immutabile, ma veicola un'idea di società possibile, un'urgenza di raccontare, soprattutto una spinta al cambiamento. E' da rimarcare che il taglio documentaristico dato al film non esclude una scrittura molto accurata, che non lascia nulla all'improvvisazione ed è figlia, per certi versi, del miglior Robert Altman (vengono in mente Nashville e America Oggi).

E' la società iraniana più giovane, quella che passa sotto la lente di ingrandimento del regista, quella che da sempre è motore propulsore dei cambiamenti: cambiamenti che, nella storia, cogliamo come possibili ma non scontati, frutto di una faticosa mediazione che paradossalmente ha poco di politico, e molto di umano. Il regista sembra mettere in primo piano gli affetti, trasmettendo l'idea che in fondo gli esseri umani hanno le stesse aspirazioni e bisogni ovunque: vivere, amare, realizzarsi. E la mediazione tra spinte contrastanti sembra possibile, in fondo, in nome di un'idea umanista che ha un che di universale, e che tende a mettere in primo piano ciò che unisce, anziché ciò che divide. E se il realismo del film non può tralasciare i drammi di personaggi fatalmente spinti ai margini (una coppia gay, una donna che sogna di esibirsi su un palcoscenico), il contraltare è uno sguardo colmo di comprensione ed empatia anche per chi cerca nella tradizione (e nello specifico nella religione, come la madre dell'aspirante cantante) un collante che unisca, o almeno un elemento di sollievo interiore. L'ottimismo forse non è possibile, ma l'essere umano ha una spinta naturale alla trasformazione: è abbastanza, sembra dirci il film, per immergersi e vivere nelle contraddizioni del presente.

Movieplayer.it

3.0/5