Recensione Animal Kingdom (2010)

Rigoroso, ambizioso, emozionante, il film di David Michod punta sull'autenticità per raccontare con piglio maturo e documentaristico il mondo della criminalità di Melbourne e un'agghiacciante vicenda familiare.

Ode to My Family

Uno schermo televisivo, un quiz show come tanti, volti banali e frasi fatte. Ma di fronte a quello schermo c'è un ragazzo di diciassette anni che attende i paramedici al fianco della madre che sta soccombendo a un'overdose di eroina. E' così, senza preamboli, che David Michod ci proietta nel mondo di Josh, o più brevemente J, che, rimasto improvvisamente solo, non vede altre opzioni se non appellarsi alla famiglia da cui la madre lo aveva allontanato, forse perché respinta a sua volta dalla propria, forse per paura. Perché il mondo di Nonna Janine/Smurf e dei suoi figli, Andrew detto Pope, Graig e Darren è un posto violento e insidioso, ma è anche l'unico che conoscono, e ha le sue ineludibili leggi come il mondo animale.


Sin dalle prime battute è evidente sia quanto il regista punti sull'autenticità, sia la misura del suo successo. L'immersione vibrante e immediata nella vicenda, sotto la pelle dei protagonisti, è il risultato di uno script ben congegnato, di una regia ricca di idee brillanti e originali nella loro semplicità, e di una straordinaria prova corale degli interpreti, dal giovanissimo James Frecheville al divo "aussie" Guy Pearce, dal sottilmente inquietante Ben Mendelsohn fino all'incredibile performance di Jacki Weaver, icona del cinema anni '70 di Down Under rilanciata con enorme risonanza grazie a questo Animal Kingdom, e in odore di nomination all'Oscar.
E' lei l'anima della storia, in quanto personificazione di una natura perversa nell'ottica della metafora cui la pellicola deve il suo titolo; madre sorridente, affettuosa, attenta, che rivela per gradi la propria spietatezza mentre la vicenda scivola inesorabilmente nel sangue e nell'orrore.

Una metamorfosi parallela e altrettanto sconvolgente è quella che tocca a J, un ragazzino costretto a maturare nel giro di poco tempo una consapevolezza terrificante, in grado di schiacciare molti adulti, e a trasformarsi da vittima in carnefice, da pedina in eroe. Così Animal Kingdom, dopo aver attratto e imprigionato lo spettatore nella densità e nel realismo delle sue atmosfere, lo avvolge con la luttuosa maestosità delle musiche di Antony Partos, non gli permette di distrarsi né di rifiatare per un istante, e lo carica, scena dopo scena, di un'angoscia tangibile, oppressiva, come un ragno avvolge la sua preda inerme. Per lasciare la presa solo in un deflagrante, inatteso e commovente epilogo.

Movieplayer.it

4.0/5