Recensione L'uomo che verrà (2009)

Le parole lasciano il posto alle immagini e alle sensazioni, sviando la ricerca di enfasi, andando invece a scavare con grande discrezione nell'umanità di coloro che in una guerra non hanno voce.

Lo sguardo puro sulla strage

Sceglie lo sguardo puro di una bambina di otto anni Giorgio Diritti per raccontare ne L'uomo che verrà la sua versione della strage di Marzabotto, l'eccidio di 770 civili perpetrato dalle truppe naziste tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 ai danni degli abitanti di Monte Sole e dintorni, a pochi chilometri a sud di Bologna. I bombardamenti ancora interessano le grandi cittá, ma la guerra arriva anche in quelle zone più impervie, nella feroce contrapposizione tra gli avanzi nazisti del dopoguerra e i partigiani. La piccola Martina assiste con stupore a ciò che le accade intorno, acquistando via via una consapevolezza sempre maggiore dell'orrore della guerra. La capacità di Diritti di seguire il suo percorso di scoperta è davvero stupefacente, capace di donarle quella voce che ha perso, dopo lo choc di un fratellino di pochi mesi morto tra le braccia, attraverso la ricerca continua del suo sguardo, facendo delle espressioni del suo viso, delle sue reazioni e delle sue iniziative una mappa precisa dello smarrimento dell'essere umano ancora incontaminato di fronte al delirio di quello che ha già smesso di essere uomo per diventare bestia. Le parole lasciano il posto alle immagini e alle sensazioni, sviando la ricerca di enfasi, andando invece a scavare con grande discrezione nell'umanità di coloro che in una guerra non hanno voce. Oltre ai primi piani che raccontano un lamento sommesso che conserva sempre dignità, il regista privilegia il campo lungo che incornicia uomini e natura per dar conto di uno sguardo acerbo che si posa su un mondo da sogno caduto in un incubo.

In una guerra a rimetterci sono sempre i poveracci, ricorda il film, e per questo Diritti va a dipingere il conflitto dal punto di vista dei contadini, scovando la realtà a partire dal contesto. La lingua è perciò il dialetto bolognese di quelle zone, i lavori che riempiono la giornata e di cui l'opera ben da conto sono gli stessi che caratterizzano la quotidianità di questa gente e che provvedono a nobilitarli. Diritti fonde la sua predisposizione documentaristica al tema in un'idea forte di cinema, che è quella che si apre uno spazio nella coscienza attraverso il ricamo di una realtà autentica che s'avvinghia all'intero schermo e si allarga in un racconto che rifugge la struttura classica, per esplicitarsi in una collezione di episodi di vita quotidiana legati l'uno all'altro dallo sguardo curioso di un cucciolo d'uomo. Il film copre i nove mesi che precedono l'infame rastrellamento, l'arco di tempo di una gravidanza che interessa la madre della piccola Martina e che porta con sé un alito di speranza in una vicenda così dolorosa. Morte e vita si intrecciano così ancora una volta, confermando la ciclicità della storia, mentre Diritti cerca di evitare la trappola del posizionamento ideologico, guardando a distanza soldati e partigiani, ognuno con colpe che non sta certo al film spiegare o condannare. Perché Diritti si mantiene sempre dalla parte dei più deboli, di donne, vecchi e bambini, che non possono far altro che subire, affidandosi a una fede che non ha mai salvato nessuno. Anche il rifugio della Chiesa perde la sua intoccabilità, Cristo viene seppellito insieme alla speranza e alle preghiere, e la fragilità degli stessi pastori finisce con l'assumere pose ridicole. Il lavoro di fino di Diritti gonfia di intensità ogni sequenza, compresi quei dettagli e quelle pause che all'occhio disattento potrebbero apparire meramente accessorie, senza scadere mai nel patetico, senza montare un'emozione chirurgica che vada a mendicare la lacrima nell'esplosione della barbarie. Il tocco discreto di Diritti si mantiene anche in questa occasione, lasciando scorrere il sangue sempre fuori campo, per restare attaccato alla piccola Greta Zuccheri Montanari, costretta ad aprirsi la strada tra i cadaveri per resuscitare. E l'immagine più toccante del film diventa quella dell'incipit riproposta dopo il massacro: la consapevolezza acquisita dona tutto un altro valore a quella casa deserta, e il nostro cuore si svuota con essa. Peccato solo che Diritti scelga di chiudere la storia della sua baby eroina nel modo più scontato possibile, superflua sottolineatura di una speranza che già trionfa nella vita ancora tutta da scrivere di quell'uomo che dal piccolo appena nato verrà. La morale non offre nessuna inedita intuizione, ma si limita a riaffermare una sacrosanta verità, valida per ognuna delle parti in causa: 'tutti noi siamo quello che ci hanno insegnato ad essere, é una questione di educazione.'