Political Animals: Il circo elettorale

L'estate TV a stella a strisce di USA Network ha puntato sulla miniserie Political Animals, con la poliedrica presenza di Sigourney Weaver nel ruolo di Segretario di Stato, con un passato da First Lady e (forse) una candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti in arrivo.

La TV continua a corteggiare l'idea di una Casa Bianca al femminile, ma evidentemente la tinta "rosa" non si addice allo Studio Ovale. Neppure la miniserie Political Animals riesce a dipingere una figura di donna abbastanza forte da conquistare la Presidenza USA e al tempo stesso il pubblico del piccolo schermo. Quello di USA Network, che ha seguito le 6 puntate tra luglio e agosto scorso, infatti, non è ne rimasto affascinato.
Geena Davis ci ha provato invano per 18 episodi con Una donna alla Casa Bianca, ora è il turno di Sigourney Weaver, che potrebbe ritentare in una seconda stagione di cui si inizia già a parlare. Elaine Barrish, il suo alter ego TV, è LA signora della politica americana. Governatore dell'Illinois ed ex First Lady, concorre alla carica più alta dello Stato ma perde la corsa alla Presidenza "accontentandosi" di diventare Segretario di Stato. Incassa la sconfitta con classe e rincara volontariamente la dose chiedendo il divorzio al marito Bud Hammond (Ciaràn Hinds), accanto al quale è rimasta fedele non solo durante il mandato presidenziale ma per 32 anni di matrimonio, costellati di bugie e tradimenti del coniuge.

Voltare pagina nel pubblico e nel privato in soli due anni? La doppia sfida non spaventa colei che ci viene presentata come "l'icona del femminismo liberale" o, come dice la giornalista Premio Pulitzer Susan Berg (Carla Gugino), "un animale politico freddo e calcolatore". "Parlano tutti della tua ambizione - le fa notare l'ex marito - ma nessuno del tuo cuore". La Barrish non ne fa certo mistero: "Se leggessi la metà di quello che i giornali scrivono di me non mi alzerei dal letto la mattina".
In realtà la stampa è solo uno dei problemi del suo ego ferito che non tollera di arrivare secondo, ma che incassa la sconfitta per preparare un nuovo assalto. Non che ami i tour de force delle campagne elettorali, sia chiaro, anzi li considera una sorta di "olimpiadi dell'ipocrisia", che la costringono a "mentire e dire alla gente che la situazione migliorerà anche se non succederà". "Le odio", confessa, " sono stufa degli uomini": ecco, allora, ripresentarsi i due fronti su cui quotidianamente si batte.
Non sopporta nulla di tutto questo, eppure non desidera altro che dominarli tutti, compresi i due figli. Il maggiore, Doug (James Wolk), fa parte del suo entourage, si trova ad un passo dalle nozze e incarna la perfezione che ogni genitore vorrebbe per la prole. O almeno ce lo fa pensare, al contrario di T.J. (Sebastian Stan, che preferiamo come Cappellaio Matto di C'era una volta), il primo ad aver fatto coming out alla Casa Bianca nonché il numero uno sulla lista degli scandali presidenziali per via della sua dipendenza dalle droghe.

Sulla carta la Barrish è la candidata ideale: coniuga la capacità di persuasione femminile alla grinta maschile. Peccato che il personaggio creato da Greg Berlanti alla fine sembri un mix (poco riuscito) dei pregi e dei limiti di due suoi precedenti telefilm, Dirty Sexy Money e Brothers & Sisters. Vorrebbe essere una leonessa, ma poi ha un debole per gli elefanti e la loro società matriarcale. Quando si profila all'orizzonte una crisi internazionale lei gioca di empatia, con l'ingenuità di un pesce rosso che nuota accanto allo squalo, sempre per restare in tema di metafore da zoo, o meglio da circo.
Sua madre l'ha eletta "capo di Elainville": tutto il mondo del Segretario di Stato ruota attorno al desiderio della poltrona presidenziale, anche se poi gli incidenti di percorso familiare la portano ad accettare compromessi che ignorerebbe con sdegno su un banco di trattative diplomatiche.
I contrasti con la giornalista Susan Berg promettevano bene: un sano scontro tra titani avrebbe ravvivato l'atmosfera piuttosto noiosa della miniserie, mentre invece ogni contrasto viene appiattito da una sceneggiatura troppo infarcita di buonismi.

I propositi ci sono, l'ispirazione non marca e il cast regge la scena con maestria, ma Political Animals alla fine ci ricorda solo tutte le promesse infrante della classe dirigente. Manca di ritmo e di spessore, lambisce le tematiche in maniera superficiale senza affondare mai gli artigli nel lato oscuro della politica. Ecco perché anche la critica a stelle e strisce si è divisa. Per l'ottimista Los Angeles Times si tratta di una "soap opera che usa espedienti scontati", per TV Guide a tenere in piedi la trama sarebbe la "speranza" in un futuro politico migliore (nella realtà, non nella finzione). Secondo il New York Times il carattere "buffo" della serie riesce a scongiurare il pericolo di un totale orrore, mentre Time la liquida come "superficiale" e The New Yorker la considera "piena di difetti, avventata ma deliziosa". Per The Hollywood Reporter "ha trasformato West Wing in Dallas", secondo il Boston Herald "s_i avvicina ad una delle parodie di Comedy Central_".
Alla fine delle sei puntate restano molte domande e la seconda stagione potrebbe migliorare e sorprenderci con un colpo di coda che solo i veri animali politici sanno sfoderare.