Venezia 69, Daniele Vicari e lo sbarco della Nave Dolce

Il regista reatino ha presentato Fuori Concorso il documentario dedicato allo sbarco della Vlora, la nave che nel 1991 portò a Bari 21 mila cittadini albanesi, tra loro un giovanissimo Kledi Kadiu; "Ogni essere umano ha diritto a sognare un futuro migliore e quelle persone volevano solo questo", ha spiegato Vicari.

Il successo di Diaz non ha per nulla affievolito l'energia di Daniele Vicari, arrivato al Festival di Venezia per presentare Fuori Concorso, nell'ambito delle proiezioni speciali, il documentario La nave dolce, in uscita nazionale il prossimo 8 novembre grazie al circuito Microcinema. Scritto contemporaneamente al lungometraggio dedicato agli eventi del G8 di Genova, questo lavoro è dedicato ad un altro fatto di cronaca che ha segnato la recente storia italiana, lo sbarco a Bari della Vlora, che ben 21 anni fa approdò in Italia con migliaia di cittadini albanesi a bordo. Fu ribattezzata la nave dolce proprio perché l'imbacazione trasportava diecimila tonnellate di zucchero proveniente da Cuba, quando attraccò a Durazzo il 7 agosto del 1991. Il giorno dopo, tra mille di difficoltà, con un motore in avaria e senza acqua, lo stesso mercantile arrivò al porto del capoluogo pugliese con ventimila profughi fuggiti dalla propria patria per tentare fortuna in Italia, la patria che hanno sempre ammirato e conosciuto grazie agli spettacoli in televisione e che rappresentava per tutti loro, abituati ad uno dei più duri regimi sovietici, un simbolo di libertà e democrazia. Per alcuni la speranza si rivelò fondata, altri invece vennero rimpatriati dopo aver passato alcuni giorni in un campo di fortuna allestito allo stadio della Vittoria, in condizioni igieniche molto precarie. Affiancato da tre degli intervistati, il ballerino Kledi Kadiu, all'epoca diciassettenne, Eva Karafili e Nicola Montano, Vicari incontrato i giornalisti per parlare di questo progetto.

Come ti sei avvicinato a La nave dolce?
Sono stato sollecitato dalla Puglia Film Commission che voleva realizzare un film di un certo impatto nel ventennale dello sbarco della Vlora. Ho scoperto che la storia era molto più interessante di quanto ricordassi e siamo partiti.

A quel punto come avete scelto i materiali da utilizzare?
I fatti erano raccontati sufficientemente dalle immagini, quello che io e Antonella Gaeta cercavamo era invece il racconto, non la semplice e fredda analisi del fatto storico. Allora abbiamo cercato dei testimoni che fossero capaci di raccontare e li ho fatti parlare a ruota libera in una sorta di flusso di coscienza che gli ha permesso di rivivere quegli eventi emozionalmente.

In che modo questo documentario può essere avvicinato a Diaz? Daniele Vicari: innanzitutto c'è una questione pratica perché entrambi sono stati elaborati contemporaneamente. Quando ho iniziato a girare Diaz, avevo già finito il montaggio di La nave dolce, ma sono riuscito a completarlo successivamente perché ero assorbito dall'altro film. Poi c'è un filo conduttore più profondo che li unisce. Nel 1989 cade il muro di Berlino e l'Italia perde il ruolo centrale che aveva avuto fino a quel momento in ambito internazionale. Si sa che i cambiamenti culturali sono molto più lenti di quelli politici e l'arrivo della Vlora è stato davvero un pugno nello stomaco per tutti. Lì ci rendemmo conto che il blocco dell'Est era veramente finito e che molte persone aspiravano a cambiare vita e avevano voglia di libertà. La nostra reazione è stata di totale chiusura. Da un lato c'era lo Stato centrale, con un governo in crisi che solo un anno più tardi sarebbe stato spazzato via dal ciclone di Tangentopoli, dall'altro la società civile, fatta da uomini e donne che davanti a quell'emergenza reagirono con grande solidarietà. Ad unire idealmente Bari e Genova è stata l'incapacità della polizia a gestire la complessità degli eventi storici.

Nel documentario poni l'accento sull'opposizione tra il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, e il sindado di Bari Enrico Dalfino, peraltro morto due anni dopo lo sbarco...
E tutti a Bari dicono che sia morto di crepacuore in seguito al grande dolore provato in quella circostanza. Diciamo che quello era un conflitto tutto interno alla Democrazia Cristiana, difficilmente spiegabile. Posso solo dire che Dalfino era cosciente della responsabilità che il comune aveva in quel frangente così delicato. Avrebbe voluto costruire una tendopoli con la collaborazione della Protezione Civile e non, come poi è stato imposto dal governo, radunarli come bestie all'interno dello stadio della Vittoria.

Kledi ed Eva, non siete stati accolti a braccia aperte dall'Italia in quell'occasione, cosa vi ha spinti a ritornare? Kledi Kadiu: sono un artista e se non mi fossi trasferito in Italia dopo il rimpatrio in Albania avrei potuto scegliere un'altra nazione. E i primi tempi non sono stati affatto semplici...
Eva Karafili: io sono rimasta in Italia perché ho avuto fortuna, probabilmente sarei stata rimpatriata anche io se non avessi trovato qualcuno in grado di aiutarmi a fuggire dallo stadio. Non ho mai fatto una colpa all'Italia per il trattamento subito. Mi sono messa nei panni di chi di punto in bianco si è ritrovato la propria casa invasa da migliaia di persone. Era normale che fossero impreparati. C'era poco tempo, era agosto e c'erano 20.000 profughi. E' adesso che la situazione mi preoccupa, visto che l'Italia non è preparata a fare leggi che tutelino chi è qui da molto tempo. Mia figlia è una studentessa eccellente eppure non ha la cittadinanza italiana. Non lo capisco.

Cosa avete provato rivedendo il film? Kledi Kadiu: avendo vissuto quel momento in prima persona posso dire che sembrava davvero di stare in un film. Ma ero giovane e incosciente e non mi andava di essere la pecora nera del gruppo. Ho deciso di prendere quella nave perché volevo assaporare la libertà.
Daniele Vicari: quello che dice Kledi è importantissimo. Ogni essere umano ha diritto a sognare un futuro migliore e quelle persone volevano solo questo. Il loro era un sogno meraviglioso. Fa bene vederci dall'esterno, dà la dimensione esatta di quali responsabilità abbiamo verso gli altri popoli.