Recensione I colori della passione (2011)

Se la contaminazione tra cinema e pittura non è una novità, un film come quello di Lech Majewski sposta l'asticella della sperimentazione più in là, sfumando ulteriormente i confini e dando vita ad un'esperienza di forte spessore estetico ed intellettuale.

Un'immersione al confine tra i linguaggi

Bruxelles, 1564. Con il suo paese sotto il giogo della dominazione spagnola, Pieter Bruegel il Vecchio dipinge uno dei suoi capolavori: La salita al Calvario, reinterpretazione fantastica della Passione ambientata nelle Fiandre del XVI secolo, con il Golgota che diventa un paesaggio campestre belga cupo e brulicante di persone, i soldati romani sostituiti dalle tonache rosse dell'Inquisizione spagnola, il Redentore in secondo piano in mezzo a una folla indifferente e desiderosa solo di assistere allo spettacolo della sua fine, un mulino che sovrasta la scena abitato forse da un Dio confuso e impotente. Un'opera dal forte taglio narrativo oltre che figurativo, che con la sua essenza racconta una storia, anzi, tante storie che vanno a convergere su un unico palcoscenico. Polonia, 2011: il regista e videoartista Lech Majewski, da sempre appassionato delle opere di Bruegel, decide di trasformare il suo quadro in un film: lo fa ispirandosi all'analisi che il critico d'arte Michael Francis Gibson aveva fatto del dipinto originale, ma soprattutto usando la tecnica dei tableaux vivant, introducendo il pittore stesso, i suoi personaggi e lo spettatore in un universo fantastico in cui scenografie naturali, pittoriche e digitali si fondono senza soluzione di continuità, e in cui i confini tra i contesti e i linguaggi sfumano.


La contaminazione tra il linguaggio della pittura e quello del cinema, comprese le loro declinazioni più recenti, in opere dal forte taglio autoriale, non è certo una novità nella Settima Arte; così come non lo è la riutilizzazione del gusto pittorico per far letteralmente rivivere epoche passate, filtrato attraverso un uso espressivo delle nuove tecnologie e del digitale. Un'opera come I colori della Passione si muove dunque, in un certo senso, su un sentiero già tracciato: non solo da un maestro come Andrei Tarkovsky, che già nel 1974 aveva "citato" Bruegel in quadro vivente inserito nel suo film Lo specchio, ma anche dalle più recenti, moderne sperimentazioni di registi quali Eric Rohmer e Aleksandr Sokurov, che in opere come La nobildonna e il duca e Arca russa portavano avanti quest'opera di compenetrazione e reciproca fecondazione tra linguaggi, tra passato e futuro, tra estasi della creazione pittorica e un cinema che fa un passo fuori dai suoi confini per iniziare a mutare in qualcos'altro. Non è un caso che Majewski sia videoartista prima che regista cinematografico, non è un caso la natura transmediale del suo lavoro, il suo interesse per il teatro e la scrittura (quando già le opere di Bruegel avevano in sé elementi narrativi e teatrali insieme), l'eclettismo rigoroso e insieme immaginifico delle sue opere.

Un film come I colori della passione, però, sposta l'asticella della sperimentazione di un passo più in là, rende ancora più esplicito il concetto di contaminazione, più sfumati i confini, più palese e quasi esibita l'assenza di punti di riferimento per lo spettatore. L'alter ego cinematografico dell'artista fiammingo (un Rutger Hauer che al cinema ha ancora tanto da dare) si muove su un paesaggio che è esso stesso pittorico, entra ed esce con disinvoltura dalla sua stessa opera, blocca il tempo (così come l'occhio dello spettatore/osservatore si sofferma su un particolare sempre nuovo nell'universo umano del suo dipinto, per poi riprendere la sua mai sazia esplorazione) grazie all'intervento di un mugnaio-dio che è sua diretta emanazione, ma che osserva dall'alto del suo mulino la tragedia umana che si dipana sotto i suoi occhi con la stessa, atterrita impotenza. Uno sgomento condiviso nello sguardo dell'amico e collezionista d'arte Nicholas Jonghelinck, interpretato da Michael York, e che diventa dolore sordo, incapace di darsi una risposta che vada al di là dell'interpretazione messianica, dell'intensa Maria Vergine a cui dà il volto Charlotte Rampling. Figure, volti, di un dramma che travalica le epoche, le nazioni e le forme artistiche, e che chiama direttamente lo spettatore ad un'immersione totale, che per una volta (ed è questa una delle scommesse vinte dal film) non ha bisogno del 3D per funzionare. Il "risveglio" finale, la fuoriuscita dal quadro con la lunga carrellata sulle opere di Bruegel, non è solo una sorta di firma da parte del regista: è anche la sottolineatura, per lo spettatore, di aver appena vissuto un'esperienza del tutto peculiare, forse di non immediata assimilazione in tutte le sue sfaccettature, ma certo di grande spessore estetico ed intellettuale.

Movieplayer.it

4.0/5