Recensione Zoran, il mio nipote scemo (2013)

Oleotto sfrutta una struttura molto solida, con situazioni consuete, proponendole però in maniera nuova e mai banale e grazie ad una sceneggiatura puntuale e senza sbavature. Il risultato è una commedia autentica e divertente.

Muti alla meta

Poteva avere tutte le squadre del mondo, Arthur Antunes Coimbra detto Zico, eccelso campione di calcio sudamericano, una delle stelle dello straordinario Brasile del 1982, stracciato dagli azzurri; scelse invece di lasciare Rio de Janeiro per andare all'Udinese, nel Friuli di Dino Zoff e Enzo Bearzot e nonostante non abbia concluso granché, il suo nome campeggia ancora sui muri dei bar della provincia, anche se il poster si è un po' staccato dalla parete. L'arrivo di Zico fu uno degli eventi salutati con maggior gioia dal placido popolo bianconero, in genere poco propenso a manifestare entusiasmo. Passateci questo prologo che vuole essere una riflessione su una città, una regione (e una cultura) che invece sa accogliere a braccia aperte e sa sorprendere e conquistare senza mai strafare, con lentezza inesorabile. Proprio qui, in questa terra di confine, incrocio di lingue e tradizioni differenti, Matteo Oleotto ambienta la sua opera prima, Zoran, il mio nipote scemo, presentata alla Settimana Internazionale della Critica, durante la 70.ma edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Ed è una lietissima sorpresa.


Il protagonista del film, Paolo Bressan, è un pingue perdigiorno che appena può molla i fornelli della mensa in cui è stato pietosamente assunto dal nuovo compagno della ex moglie per dirigersi all'osteria di Gustino, in un piccolo paese vicino a Gorizia. Pieno di debiti e quasi sempre ubriaco, è in perenne conflitto con il prossimo, a cui intima sempre di stare muto, induce gli ex alcolisti a riprendere in mano il bicchiere, dice bugie con estrema facilità, ha scarsa attenzione all'igiene personale e quando dà del "cattivo" a qualcuno sembra riferirsi a sé stesso. Alla morte della zia slovena Anja, Paolo eredita una lunga serie di debiti e un nipote, Zoran, che la defunta gli affida. Timido, occhialuto, strampalato, il quindicenne è un ragazzo problematico che parla un italiano arcaico e non è in grado di vivere da solo. Paolo vorrebbe abbandonarlo, ma quando scopre il grande talento del nipote nel giocare a freccette, pensa bene di sfruttarne le doti per partecipare al campionato mondiale, vincere i soldi in palio e sparire dalla circolazione. Allora, chi è lo scemo? Il quarantenne che si ubriaca con metodo o l'adolescente timido, amante del canto, così diverso dai coetanei, ontologicamente strano? Oleotto non ha dubbi: la palma dello scemo va al flaccido personaggio interpretato in maniera impeccabile da Giuseppe Battiston.

Il bello di un film come questo è che a dispetto della sua indole comica non voglia essere simpatico a tutti i costi e riesce quindi ad essere autentico e davvero divertente. Oleotto sfrutta una struttura molto solida, con situazioni consuete (l'amicizia tra gli opposti, il lento svelarsi reciproco, la desertica situazione sentimentale del protagonista), proponendole però in maniera nuova e mai banale e grazie ad una sceneggiatura puntuale e senza sbavature, scritta con Daniela Gambaro, Pier Paolo Piciarelli e Marco Pettenello, firma uno degli esordi più interessanti del cinema italiano. Raramente ci è capitato di vedere sul grande schermo un lavoro così 'scorretto', aggettivo quanto mai abusato, ma che in questo caso rende appieno il senso di una storia che non è affatto la rivincita dello sfigato di turno, ma la vera esaltazione degli affetti umani, di qualunque tipo essi siano, dall'amore, all'amicizia, passando per l'odio e la rabbia.
Costruita attorno a ad una figura pervicacemente sgradevole, anche quando nel finale viene irradiata da una luce di speranza, l'opera prima di Oleotto si muove con ordine geometrico esaltando gli aspetti più particolari dei suoi personaggi, come l'atavico amore per il vino e una certa rudezza 'carsica' che non è disinteresse per la vita, semmai è interesse verso ciò che conta veramente (e le sorprese sono dietro l'angolo). E' proprio questa continua oscillazione tra una realtà che viene mostrata in tutta la sua pesantezza e il brivido che arriva da un sogno la cui realizzazione sembra essere a portata di mano, a essere l'elemento distintivo del film, ma non ne diventa il cardine assoluto. Troppe altre cose sono in ballo e Oleotto ce le mostra tutte, con stile molto originale e curato, concedendo ad ognuna il giusto tempo e spazio. Gli eroi sono Paolo e Zoran, si resta affascinati però anche da Gustino (Teco Celio) e dall'anziana madre che rimpiange i bei tempi in cui "beveva vino schifoso" o dal collega di Paolo, Ernesto, disposto a credere "nel dio dei mona" pur di non riprendere a bere e anche dalla ex del protagonista, Stefania, legata ad uomo mite e cristiano (Roberto Citran), troppo innamorato del passato.
Qui non c'è alcuna vittoria roboante e il famigerato campionato mondiale di freccette si riduce all'acquisto di due biglietti per Glasgow, di un DVD coi segreti del Messia del tiro a segno (un simpatico Sylvain Chomet) e, soprattutto, nella riuscita di un training precisissimo reso efficace dall'amore. Il senso della storia sembra essere altrove, non tanto nell'abilità nelle freccette, dove chi vince è solo uno e solo in determinate condizioni, ma nel coro a cui alla fine approda Zoran, unica immagine davvero pacificante del film, metafora riuscita dell'umanità, in cui tante voci fanno un suono unico e armonico; coro che rende struggenti anche i canti più terragni, al pari di quelli religiosi, che grazie alla lingua friulana diventa legame col passato e sa essere anticipazione di un futuro più leggero e meno rabbioso. Tutto questo è reso possibile dall'arrivo dell'alieno Zoran, il bravissimo Rok Presnikar, che impara a fare centro dopo aver baciato Anita. Chiamatelo scemo, adesso, se ne avete il coraggio.

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4.0/5