Recensione Yves Saint Laurent (2014)

Del processo creativo che ha reso unico Saint Laurent nel suo campo, poco viene messo in mostra però nel film, ed è forse la pecca maggiore in un prodotto che invece avrebbe dovuto maggiormente esaminare questo elemento, amplificarlo, illuminarlo.

Genere insidioso il film biografico. Se chi lo dirige riesce a mantenere una propria originalità, mettendosi al servizio della storia che vuole raccontare, senza rinunciare ad un tocco visionario, i risultati possono essere molto soddisfacenti; nel caso di Yves Saint Laurent, biopic diretto da Jalil Lespert e presentato nella sezione Panorama a Berlino 64 ci troviamo di fronte ad un prodotto deludente, dalla confezione impeccabile.

Ispirato alla biografia scritta da Laurence Benaïm, il lungometraggio racconta parte della vita del celebre stilista, scomparso sei anni fa, dagli esordi come delfino di Christian Dior (alla morte del leggendario stilista nel 1957 è chiamato a succedergli) agli ultimi giorni prima della sua scomparsa, avvenuta per un tumore al cervello. Parte integrante del film è la narrazione del rapporto d'amore che ha legato Saint Laurent al socio e compagno di vita Pierre Bergé. Mentore, amico, amante, businessman impeccabile, pigmalione, Bergé, interpretato da un bravissimo Guillaume Gallienne (ma è in parte anche l'altro interprete, Pierre Niney), è il

Saint Laurent, l'artista

Yves Saint Laurent: Pierre Niney con Charlotte Le Bon in un momento del film
Yves Saint Laurent: Pierre Niney con Charlotte Le Bon in un momento del film

Yves Saint Laurent è stato uno dei grandi della moda internazionale, capace di coniugare arte e artigianalità, haute couture e prêt-à-porter, cambiando di volta in volta l'idea di donna che sentiva la necessità di abbellire con i suoi vestiti. Del processo creativo che ha reso unico Saint Laurent nel suo campo, poco viene messo in mostra però nel film, ed è forse la pecca maggiore in un prodotto che invece avrebbe dovuto maggiormente esaminare questo elemento, amplificarlo, illuminarlo. Ecco, quindi che il film perde consistenza e si avvita su di un racconto monodimensionale, sostenuto solo dalle vivide interpretazioni degli attori.

Yves, l'uomo

Nato a Oran, in Algeria, Yves dimostra fin da giovanissimo di amare la moda e i vestiti, ispirato dalla madre, una donna estremamente elegante che lo spinge a intraprendere la carriera di stilista; cresciuto artisticamente nell'atelier di Christian Dior e licenziato in seguito al ricovero in un ospedale psichiatrico, il Saint Laurent di Lespert è un uomo fragile, insicuro, che a dispetto del grande successo personale riscosso negli anni, non riesce a vincere ansia e depressione. Se da un lato scopriamo un lato inedito del couturier, l'aspetto meno scintillante della sua esistenza, il regista mostra il volto 'segreto' di Saint Laurent in maniera del tutto prevedibile, con un didascalismo che risulta molto fastidioso, almeno quanto la voce off di Pierre Bergè, molesto espediente narrativo che dovrebbe servire per raccordare i diversi quadri del film, ma che alla fine impedisce l'evolversi del racconto.

Dietro le cuciture

L'immagine del genio maledetto, dell'artista incapace di essere pienamente pacificato con sé stesso è argomento di per sé scomodo, se non altro per l'automatismo che questo pensiero supporta; inserito in un contesto cinematografico piuttosto piatto diventa addirittura pesante. Seguendo un rigoroso ordine temporale, Lespert, che ha scritto la sceneggiatura assieme a Jacques Fieschi, Jérémie Guez e Marie-Pierre Huster, raggruppa le fasi essenziali della carriera di Saint Laurent e della sua vita spericolata, trasformatasi letteralmente dopo la fondazione della propria maison. Da timido ragazzo dalle grandi doti artistiche, Yves diventa uomo affamato di vita, dedito alla promiscuità e alle droghe. Una persona fragile, dunque, che sogna di avere forza fisica, di morire in un letto affollato e si definisce "uomo gentile".

Movieplayer.it

3.0/5