Recensione Warrior (2011)

Il film di O'Connor mette in scena l'archetipico confronto tra due fratelli separati, ponendolo sullo sfondo di una disciplina caratterizzata da un alto tasso di violenza, che ben si adatta alla durezza della storia rappresentata.

Fratelli gladiatori

Tommy e Brendan sono due fratelli molto diversi tra loro, che hanno preso strade che più differenti non si potrebbe: il primo, il minore, è fuggito insieme a sua madre dal padre violento e alcolizzato, per poi arruolarsi nei marines e, al ritorno dall'Iraq, iniziare a vivere alla giornata e a cacciarsi nei guai; il secondo invece è rimasto insieme a suo padre per poter sposare la fidanzata Tess, ha studiato ed è diventato professore di liceo. Entrambi i fratelli, separatisi da tempo, condividono il rancore per il genitore, fattosi più forte dopo la morte della madre, e un passato come lottatori nelle arti marziali miste: una disciplina violenta e spettacolare, in cui Tommy, sostenuto dal padre, eccelleva da ragazzo, sopravanzando regolarmente il più riflessivo Brendan, considerato eterno secondo. Quando, per ragioni diverse, i due sono costretti a tornare sul ring per partecipare a Sparta, il più grande torneo nazionale della specialità, le loro strade si incrociano di nuovo, ed entrambe incrociano quelle del padre Paddy: come allenatore nel caso di Tommy, come insospettabile tifoso in quello di Brendan. Ma le regole del torneo imporranno presto ai due fratelli di combattere l'uno contro l'altro, in un confronto in cui si sfogheranno le tensioni e i rancori di una vita.


Il ring, e i violenti confronti che vi si consumano, sono stati spesso soggetti privilegiati per il cinema, che sembra il naturale veicolo di uno spettacolo che affonda le sue radici nel sangue dell'arena, in un rito primordiale e catartico che ha nella moltitudine eccitata (la stessa che, di base, abita le sale cinematografiche) il suo terminale preferito. Gli sport di combattimento hanno spesso fatto da sfondo a drammi umani e ad atavici confronti, a cadute e riscatti, con il match come inevitabile catalizzatore e sfogo di tensioni: da Lassù qualcuno mi ama a Toro scatenato fino alla saga di Rocky. Negli ultimi anni si è notato un ritorno di interesse per il soggetto, legato spesso a storie di personaggi borderline: non solo la boxe a fare da veicolo di riscatto per il Mark Wahlberg di The Fighter, ma anche il disprezzato ma tuttora seguitissimo spettacolo del wrestling, ultima e unica possibilità di espressione vitale per un Mickey Rourke a un passo dall'oscurità, nel crepuscolare The Wrestler di Darren Aronofsky. Ora è Gavin O'Connor, già regista del bel Pride and Glory - Il prezzo dell'onore, a voler dire la sua sull'argomento, mettendo in scena un altro archetipico confronto, quello tra due fratelli separati, e ponendolo sullo sfondo di una disciplina caratterizzata da un alto tasso di violenza, che ben si adatta alla durezza della storia rappresentata.

Parte bene, Warrior, con il teso incontro tra l'indurito Tommy (un ottimo Tom Hardy) e il genitore, interpretato da un Nick Nolte malinconico e dal volto scavato, un personaggio al crepuscolo che cerca disperatamente di aprire un canale di comunicazione con due figli che lo disprezzano. Un momento che precede la narrazione parallela della storia dei due fratelli, le diverse strade intraprese e il percorso che porta entrambi sull'arena di Sparta; con la vicenda del fratello minore lasciata volutamente nell'ombra, le sue reali motivazioni rimaste inesplicate fino ai minuti finali, a caricare il personaggio di un alone quasi fantasmatico, in linea con i suoi ingressi sul ring e con la risoluzione rapida e micidiale dei combattimenti di cui è protagonista. Per circa metà della sua (lunga) durata, il film di O'Connor emoziona e coinvolge, grazie anche alle buone prove attoriali di cui si avvale (Joel Edgerton nel ruolo di Brendan è altrettanto efficace, sul volto un intenso mix di sofferenza e fiducia) e a una narrazione abbastanza equilibrata, che si dipana, con un certo realismo, sullo sfondo di una crisi economica che abbatte spietatamente le sicurezze più duramente conquistate.
La sceneggiatura rivela tuttavia i suoi limiti con l'approssimarsi del confronto finale tra i due protagonisti, caricato di un'enfasi dopata che finisce per togliergli gran parte dell'efficacia. Se, anche nella seconda parte del film, non mancano i momenti emotivamente intensi (molto riuscito quello del confronto, in albergo, tra Brendan e suo padre) nel complesso O'Connor finisce per perdere di vista la narrazione e i suoi personaggi, teso com'è a costruire un climax che culmini nelle lunghe sequenze (registicamente comunque molto efficaci) degli scontri sul ring. La misura che aveva caratterizzato i minuti precedenti finisce annegata in una messa in scena roboante, che non riesce a favorire l'empatia per due personaggi che, nell'evoluzione del loro rapporto, si rivelano entrambi incompiuti. Se il regista si conferma molto bravo con la macchina da presa, e i combattimenti vengono ripresi con una serie di piani ravvicinati e un montaggio che ne esaltano la fisicità, ciò che manca è la tenuta narrativa della vicenda, che alla fine mostra una debolezza intrinseca: come se alla fine O'Connor, inebriato dalle potenzialità visive dello spettacolo che si apprestava a rappresentare, avesse rinunciato a raccontare anche, parallelamente, una storia. Il culmine della vicenda, così, manca sostanzialmente i suoi obiettivi di coinvolgimento emotivo, e il finale lascia nello spettatore, sotto l'enfasi profusa a piene mani, una singolare freddezza; mentre ci si aspetta invano una inesistente "coda" che restituisca a questi gladiatori del ventunesimo secolo almeno un po' dello spessore umano che avevano, precedentemente, lasciato intravedere.

Movieplayer.it

3.0/5