Recensione Vietato Morire (2012)

Dopo il fantasy/horror The Ghostmaker, Distribuzione Indipendente propone l'interessante esordio del giovane Teo Takahashi: un docu-fiction ambientato in una Roma cupa e livida, incentrato sulla dipendenza da eroina.

(R)esistere contro l'invisibilità

Roma, esterno giorno. Intorno alla Stazione Termini, luogo di transito per alcuni, di dolorosa, pulsante vita vissuta per altri. Sono gli invisibili, i diseredati, i senzatetto; e, soprattutto le vittime dell'eroina, quelli di cui ormai non si parla più se non nei termini dell'effimero allarme sociale per qualche scippo di troppo. Un ragazzo straniero si aggira intorno alla postazione mobile degli operatori di Villa Maraini. Vuole una siringa, ha bisogno di farsi. Il suo volto è contratto nella smorfia della dipendenza. L'operatore acconsente, ma gli lascia un biglietto con un indirizzo, strappandogli la promessa che inizierà a seguire un percorso. Per riprendere in mano la sua vita, o almeno provarci. Più facile a dirsi che a farsi, come il giovane Patrick scoprirà presto. Intorno a lui, più o meno vicini, altri fallen angels che entrano ed escono dalla struttura, gente che la tossicodipendenza ha trasformato, ma forse non ancora piegato. Non tutti, almeno.


Alla sua seconda uscita annuale, il catalogo dell'etichetta Distribuzione Indipendente conferma la sua voglia di spaziare, di trattare di cinema a 360 gradi. Dopo il fantasy/horror di The Ghostmaker, arriva un esordio tutto italiano, in un genere come il documentario che (specie nella scena indipendente) è in costante evoluzione. Vietato morire, in realtà, non è un documentario nel senso stretto: ma forse, come già spiegato da Roberto Nepoti nella sua (consigliatissima) storia del genere, è arrivato il momento di abbandonare le categorizzazioni troppo stringenti, le etichette che semplificano, ma anche limitano la ricchezza di una realtà per sua natura sfuggente. Documentario, fiction, docufiction e tutto ciò che si cela negli interstizi tra queste categorie: l'esordio nel lungometraggio del giovanissimo Teo Takahashi (24 anni, alcuni corti all'attivo, e già una bella voglia di dire con le immagini) le attraversa tutte con disinvoltura, con la sua urgenza di descrivere una realtà così vicina, eppure (colpevolmente) trasparente agli occhi dei più.

L'intento del giovane regista, in effetti, è manifesto e coerente, così come inattaccabili sono le sue premesse: la descrizione della dipendenza da eroina, al cinema (e non solo) non va più di moda. Sono passati gli anni '80, è passato l'allarme sociale che veniva gridato (qualunquisticamente) dai media, passate anche le (comunque salutari) provocazioni, letterarie e cinematografiche, dei Trainspotting e derivati. Le droghe di moda, nella realtà come nella finzione, sono ormai altre; e non da oggi. Gli eroinomani si riducono a figure sociali neanche più appetibili per lo spiccio resoconto giornalistico, per lo spaccato sociologico, men che meno per quello cinematografico. Così, un'opera come questa si rivela genuinamente in controtendenza, e non solo per le ovvie implicazioni etiche che porta con sé: ma anche per come recupera al racconto cinematografico un tema le cui potenzialità sono rimaste, negli anni, immutate. Non si legga questo come un discorso cinico, come la voglia dell'arte di piegare alle sue esigenze (spettacolari) i drammi reali: se il cinema, come dice la frase di Pier Paolo Pasolini citata nel film, è "il linguaggio scritto della realtà", allora la voglia di alimentarlo continuamente, con le storie ad esso più funzionali, non potrà che farci capire di più di quella realtà.
E Vietato morire, senza enfasi o retorica, riesce sostanzialmente nell'intento. E' ozioso starsi a domandare quanto ci sia di reale e quanto di ricostruito nelle situazioni che ci vengono mostrate sullo schermo: i protagonisti, a cominciare dal giovane Patrick Ramalho, quel contesto l'hanno vissuto, e continuano a viverlo, sulla loro pelle. La resa dei rispettivi "personaggi" è quanto di più naturalistico e immediato (nel senso letterale di privo di mediazioni) si possa immaginare. Ospiti, operatori e drop-outs (più o meno definitivi) della comunità si rivelano partecipi dello stesso intento. La descrizione della Capitale, invece, è quanto di più cinematografico si possa vedere sullo schermo: un mostro di cemento e vetro (negli esterni intorno alla stazione) dalle tonalità oscure e minacciose, eppure stranamente indifferente. Un essere che inghiotte e fagocita, ma soprattutto nasconde, e spinge all'oblio. Quello del titolo, in fondo, può essere letto come un imperativo che reagisce e controbilancia tale intento: sopravvivere per continuare ad esistere, spezzare le catene della dipendenza per infrangere quelle ben più dolorose dell'invisibilità. E, viene da dire, forse a quel punto questi luoghi oscuri potranno accorgersi di te: and these badlands start treating us good, cantava qualcuno.

Movieplayer.it

3.0/5