Recensione Una domenica notte (2013)

L'esordio di Giuseppe Marco Albano, classe 1985, è una divertita commedia, che racconta in forma grottesca le vicende, e le frustrazioni, di un regista non più giovanissimo che cerca di realizzare la sua opera seconda.

Avventure di un regista invisibile

Antonio Colucci, a 46 anni, è un regista ancora pieno di idee e di progetti, con un'autentica passione per il suo lavoro; l'uomo, tuttavia, dopo aver realizzato un unico lungometraggio 20 anni prima, è costretto a sbarcare il lunario dirigendo anonimi spot pubblicitari. Antonio, infatti, non è mai riuscito a dirigere un'opera seconda, malgrado il suo esordio, un horror uscito solo in Germania, lo avesse rivelato come un giovane cineasta promettente. Mai arresosi, Antonio sta ora cercando finanziamenti per una nuova sceneggiatura a basso budget, un film dell'orrore post apocalittico, con cui conta di rilanciare la sua carriera; ma l'impresa, tra porte sbattute in faccia, testimonianze di nepotismo, e inviti a scrivere qualcosa che sia più appetibile per il pubblico, si rivela ancora più ardua del previsto. Intanto, la vita personale preme prepotentemente alla porta, tra un matrimonio fallito, un figlio con cui Antonio vorrebbe trascorrere più tempo, e una nuova relazione rivelatasi tutt'altro che facile.


Cronache grottesche
Una domenica notte, commedia low budget uscita col marchio di Distribuzione Indipendente, rappresenta l'esordio nel lungometraggio del giovane regista Giuseppe Marco Albano: questi, classe 1985, si era già messo in evidenza con alcuni corti, tra i quali il terzo, Stand by me, si era anche aggiudicato il Nastro d'Argento. Il film, tuttavia, nasce in realtà dalla sinergia del lavoro di Marco Albano con quello di Antonio Andrisani: questi, autore del soggetto originale, è anche l'efficacissimo protagonista, un cineasta non più giovanissimo, che vede frustrati tutti i suoi tentativi di realizzare il progetto a cui più tiene. Non è difficile trovare nel film spunti, se non autobiografici, almeno attinenti a una realtà che chiunque si sia approcciato al mondo dei lavori creativi potrà riconoscere bene: la frustrazione del trovarsi di fronte una serie di porte chiuse, la rabbia per un nepotismo espresso ormai alla luce del sole (efficacissimo, a questo proposito, il personaggio del coreografo Pip-Pop) la difficoltà a scendere a compromessi in un contesto in cui la qualità del proprio lavoro, e ancor più la sua dignità, sembrano ormai variabili accessorie.
Il personaggio del viticoltore interpretato da Ernesto Mahieux, in particolare, racconta di una borghesia volgare, incolta, pronta a speculare sul talento con fare rapace e predatorio. Un affresco restituito in forma grottesca, ma non per questo lontano dalla realtà.

Orrori al sole
Ciò che tuttavia rende interessante il film di Marco Albano è il fatto che questo ritratto, penetrante ma in fondo non nuovo, si innesti su quello del microcosmo di una città di provincia lucana: un contesto immobile, per sua natura refrattario alle iniziative che ne possano spezzare, in qualche modo, la rassicurante quiete. In questo ambiente, il progetto del protagonista sembra come un corpo estraneo: il sogno di un folle, o forse quello di un bambino mai cresciuto. Comunque, un proposito da guardare con sospetto, quando non con malcelata commiserazione. Ancor più peculiare è il fatto che il regista pensi di ambientare un horror sul territorio di un'assolata provincia del sud: le sue tematiche e la sua idea di cinema, così irrimediabilmente fuori luogo (nonché fuori tempo) sembrano esse stesse un elemento fantastico, quasi materia onirica che si nutre del suo ostinato proposito, prima ancora di essere rappresentata sullo schermo. Eppure, gli spezzoni di quel film sognato, deliziosamente Eighties nelle scelte scenografiche e di fotografia, mostrano un'idea artigianale di cinema che sopravvive agli anni, alle mode, e alle presunte incompatibilità geografiche. E poi, anche il sole può inquietare (e il nostro cinema di genere, Pupi Avati in testa, ce l'ha già detto qualche decennio fa): la prova più tangibile sta in un'altra riuscita sequenza, quella del sogno in cui il protagonista, durante un'improbabile raccolta di fondi per il film, si trova di fronte all'irridente fantasma del padre.

Un ritratto (iper)realista

Il registro scelto dal film per rappresentare la tragicomica ricerca del protagonista, per buona parte della sua durata, è appunto quello grottesco, quando non direttamente iperrealista. Registro che a volte, per esprimersi, non ha neanche bisogno di una regia propriamente detta: gli spezzoni di provini in bianco e nero, gustosi frammenti filmati a là Ciprì e Maresco di cui il film è disseminato, sono in larga parte (per stessa ammissione del regista) totalmente autentici. La realtà, buffa, paradossale e destabilizzante, finisce spesso per superare la fantasia: a volte basta, ad un cineasta, semplicemente l'"occhio" per selezionarne una parte e portarla sullo schermo. In questo senso, è un peccato che Una domenica notte si adagi un po', nella sua seconda parte, su una eccessivamente piana rappresentazione dell'universo che si muove attorno al protagonista, in special modo quello familiare. Così abile nel cogliere vizi ed idiosincrasie, portati al parossismo, della provincia e di istituzioni "culturali" che per la cultura fanno così poco, il film di Marco Albano risulta meno efficace quando cerca di tratteggiare il personale, il registro più intimo del rapporto del regista con suo figlio (poco considerato dallo script) o con le due presenze femminili, coi volti di Francesca Faiella e Claudia Zanella. La maniera, e una certa convenzionalità di scrittura, sembrano caratterizzare la descrizione, un po' scolastica, del privato del protagonista; elemento che diviene preponderante nella seconda metà del film. Tuttavia, un intelligente finale, che diremmo quasi meta-cinematografico, riscatta in larga parte il calo di mordente; con le implicazioni di una non-conclusione, in definitiva, coerente col divertito cinismo (non privo di un fondo di fiducia) che emana dal film.

Movieplayer.it

3.0/5