Recensione Una canzone per Marion (2012)

Pur mitigato dall'aplomb britannico, l'approccio solare del film ci coinvolge senza vergogna, così la tragedia di una coppia di anziani signori davanti ad un inevitabile distacco diventa occasione per demolire i muri dell'indifferenza.

Mostrami un sorriso

"Portatevi tanti fazzoletti, perché piangerete un sacco", ci avevano detto. Noi, scettici e un po' disillusi, quasi annoiati dalla ripetitività di certe storie larmoyant, non avevamo creduto all'avvertimento, anzi, lo avevamo preso come una sfida, desiderosi nel profondo di smentire gli autori di una simile premonizione. Vuoi mettere la soddisfazione di uscire dalla sala con gli occhi asciutti? A scanso di equivoci, ve lo ribadiamo: è molto difficile riuscire a trattenere le lacrime durante la visione di Una canzone per Marion, diretto da Paul Andrew Williams; di per sé questo non è né un pregio, né un difetto del film, è un dato di fatto. Messi da parte gli horror e le commedie nere, quindi, Williams si ispira alla vera vicenda dei nonni, si rivolge al cuore degli spettatori genuinamente e, per quanto possibile, senza ricorrere a facili giochetti e riesce a farci partecipare visceralmente alla storia di Arthur e Marion, una coppia di anziani signori che vive in un paesino inglese sferzato dalla pioggia e oscurato dalle nuvole.


Scorbutico e solitario lui, ottimista e aperta alla vita e agli altri lei, vivono le proprie giornate dividendosi tra la casa, un cottage dalla porta rossa, il pub e il centro sociale dove la donna, malata di cancro, si diverte a cantare assieme ad altri coetanei nel coro diretto da Elizabeth (Gemma Arterton). Quando la malattia di Marion arriva ad uno stadio non più curabile, Arthur entra in crisi profondissima. Non vuole lasciarla andare, senza di lei si sentirebbe perso, senza di lei non ci sarebbe alcuna possibilità di parlare con il figlio Christopher, da cui lo ha sempre separato un muro fatto di silenzi e dolorosa indifferenza. A compiere il miracolo, se così vogliamo definire lo scongelamento di Arthur, è la musica. Quando Marion muore, infatti, l'uomo sente l'esigenza di proseguire idealmente il progetto portato avanti dalla moglie, partecipare ad un concorso nazionale e tirare fuori, finalmente, la propria voce. Viene aiutato da Elizabeth, che ogni giorno gli dedica qualche ora in più del suo tempo, e dai suoi nuovi amici.

Il grigio è un colore che quasi mai piace, forse è per questo che viene associato alla terza età, l'ultima stagione della vita, un periodo pieno di paure, che tuttavia, come mostra bene il film, può ancora riservare delle sorprese. Dopo Marigold Hotel, Quartet e Uomini di parola, solo per citarne alcuni, è evidente come il filone del grey pound sia ricco e pronto per essere saccheggiato ancora un po'; i tratti distintivi sembrano essere gli stessi, con trame costruite attorno a un gruppo di personaggi che per sfuggire alla disperazione del grigio ricorrono alle proprie passioni e sviluppano un nuovo interesse per la vita. Quando però gli stilemi si ripetono stancamente, anche in presenza di cast da dieci e lode, sono scrittura e regia a fare la differenza. Per questo, pur non essendo un'opera originale, dalle vette stilistiche inarrivabili, Una canzone per Marion funziona a dovere.
A differenza di Amour di Michael Haneke, costruito attorno allo stesso argomento, qui la tragedia di una coppia davanti all'inevitabile distacco non si consuma privatamente, esaurendosi nella solitudine della propria casa, ma diventa occasione di rinascita, un modo per demolire quelle difese che si costruiscono per comodità. E' un approccio solare e vitale, seppur mitigato dal consueto aplomb britannico, da cui ci lasciamo travolgere senza vergogna. Struggente come solo le storie d'amore sanno essere, malinconico, brillante in tutta la parte relativa alle prove del coro - d'accordo, vedere un gruppo di vecchietti che canta un pezzo dei Motorhead può sembrare un po' ruffiano, ma la loro versione di Ace of Spades è memorabile - , il film riesce a mantenersi in equilibrio grazie all'interpretazione di un cast stellare e ci riferiamo in particolare ai deliziosi protagonisti, Terence Stamp e Vanessa Redgrave, mostri sacri dello stardom britannico, perfetti nei panni di Arthur e Marion. I due sono a tal punto precisi nei rispettivi ruoli, da farci sorvolare su alcuni difetti dell'opera, che in certi momenti mette tra parentesi la leggerezza che la contraddistingue per larga parte, insistendo troppo sugli aspetti patetici della vicenda. Stiamo parlando di alcune cadute di tono che seguono una prima parte molto intensa e che alterano lo sviluppo narrativo in prossimità dell'epilogo, in cui la catastrofe degli eventi è forse troppo accelerata (il risveglio emotivo di Arthur, il concorso, la riappacificazione con il figlio). Si tratta però di dettagli che sanno diventare marginali in una storia che tratta in maniera delicata un tema complesso come la separazione da una persona amata, affidandosi ai corpi e ai volti, spesso ripresi in primissimo piano, di due attori con la A maiuscola; interpreti che per aderire totalmente ai loro alter ego non hanno paura di mostrare le proprie fragilità, di apparire goffi e deboli. E quando una sorridente Marion canta True Colors al suo Arthur, non c'è scampo per noi. E ci sta bene così.

Movieplayer.it

3.0/5