Recensione The Unknown Known (2013)

Dovrebbe essere la verità storica l'obiettivo principale del regista, il desiderio di far luce sulle zone d'ombra di uno dei personaggi più influenti della storia contemporanea, eppure Morris lascia che sia Rumsfeld a monopolizzare il dialogo.

L'allegro demiurgo

"Io sono un uomo politico; e questo vuol dire bugiardo e truffatore, e quando mi chino a baciare i bambini rubo loro le caramelle. Ma vuol dire anche che mi lascio tutte le porte aperte". Lo sosteneva uno dei personaggi di Caccia a Ottobre Rosso e questo la diceva lunga sul modo in Hollywood rifletteva sugli amministratori della cosa pubblica. Cosa succede però se dalla finzione ci spostiamo alla realtà, come può un politico, strutturalmente predisposto alla bugia, o meglio alle dichiarazioni creative, essere il protagonista di un documentario, genere cinematografico che trova la sua essenza nel tentativo di raccontare la verità? L'interrogativo, lo diciamo subito, non viene affatto risolto dalla visione dell'ultimo lavoro di Errol Morris, The Unknown Known, presentato in concorso alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Dovrebbe essere la verità storica l'obiettivo principale del regista, il desiderio di far luce sulle zone d'ombra di uno dei personaggi più influenti della storia contemporanea; eppure, ben conscio di trovarsi davanti ad un osso duro, uno statista difficilmente intaccabile, in grado di rilanciare con astuzia e cinismo le accuse che (blandamente) gli venivano mosse, Morris lascia che sia Rumsfeld a monopolizzare il dialogo. Potremmo supporre che sia proprio questa la strategia, ovvero mostrare in tutta la sua insita violenza la fastidiosa peculiarità dello statista di confondere l'interlocutore, di portarlo a spasso con i sofismi e vi risparmiamo l'arzigogolato ragionamento che ha portato al titolo del film; eppure non saremmo del tutto obiettivi in questa affermazione, perché la sensazione è che Rumsfeld abbia in realtà messo a segno il colpo vincente, sfruttando l'intera operazione per tornare a far parlare di sé, forse per attaccare i detrattori.


La macchina da presa di Morris è per lo più fissa, il fondale è grigio, non c'è niente di sconvolgente nella forma di questo documentario, eppure intorno ai 'duellanti' si dipanano i fili della Storia con la S maiuscola. Potremmo elencarvi nel dettaglio tutte le tappe del cursus honorum del politico statunitense, ma sarebbe un'operazione superflua. Donald Rumsfeld, Segretario della Difesa sotto l'amministrazione Ford dal 1975 al 1977 e successivamente sotto il presidente George W. Bush, dal 2001 al 2006, è stata l'eminenza grigia degli USA, il tattico che ha eliminato i nemici uno ad uno, a partire da quel Richard Nixon che per lui aveva predetto una carriera brevissima; è stato uno dei responsabili della sconfitta americana in Vietnam e il punto di riferimento di Ronald Reagan che lo nominò inviato nel Vicino Oriente, quando conobbe Saddam Hussein, stringendogli la mano; ha ideato la Guerra del Golfo e ha elaborato la più massiccia operazione di controllo nei territori del Medio Oriente. Per sostenere è incrementare la leadership mondiale da parte degli Stati Uniti non ha esitato a creare degli spauracchi, a inventare mostri da combattere e sconfiggere per avere una pace duratura, una pace di cui essere grati in eterno agli Stati Uniti, naturalmente. Facendo propria la lezione di Pearl Harbor, tragedia frutto della mancanza di immaginazione, ha imparato dunque a prevedere l'imprevedibile.

Le parole si alternano ad immagini di repertorio, inserti grafici, bellissime fotografie, che rendono la narrazione appassionante e non noiosa, sebbene gli argomenti toccati siano tutti corposi. Rumsfeld il freddo non tradisce mai emozioni, neanche quando si parla dell'11settembre e dello scandalo del carcere militare di Guantanamo o quando gli viene chiesto perché si sia deciso di invadere l'Iraq, nonostante non siano mai state trovate le famigerate armi di distruzione di massa ("L'assenza di prove non è una prova dell'assenza", dice). Non lascia trapelare nulla di sé neanche quando legge i suoi "fiocchi di neve", le decine di migliaia di appunti annotati nel periodo in cui fu membro del Congresso e segretario della Difesa, prima "immortalati" nel dittafono e poi rielaborati fino a cinque volte e scrupolosamente catalogati, stralci di una vita politica preziosissimi per identificarlo come uno showman dispotico, ossessionato dalle parole più di quanto lui stesso abbia il coraggio di ammettere. Il match dunque è coinvolgente come ci si poteva attendere e ci permette di mettere a fuoco non tanto l'indole del personaggio (chiarissima in ogni movimento delle mani e nei sorrisi 'diabolici' che elargisce in continuazione), quanto la straordinaria capacità, tutta americana, di trasformare la politica in intrattenimento. Eppure non ci si può ritenere completamente appagati dal documentario, non se ci si aspettava di sapere qualcosa di più sul protagonista. Che ci ha rubato le caramelle e ha chiuso tutte le porte.

Movieplayer.it

3.0/5