Recensione Rabbia in pugno (2011)

Pochi giorni dopo l'uscita di Multiplex, Stefano Calvagna porta sullo schermo un'altra pellicola: un revenge movie secco e tematicamente forte, girato nel 2011 e rimasto nel cassetto per ben due anni.

Angeli rabbiosi

E' tornata a farsi sentire, la presenza di Stefano Calvagna, nel variegato panorama del nostro cinema indipendente. Dopo la nota (e controversa) vicenda giudiziaria che lo ha visto protagonista, il regista romano ha infatti voluto portare in sala, in contemporanea, ben due film: una comprensibile volontà di "bruciare i tempi", recuperando prima possibile quella presenza (per qualcuno ingombrante, comunque impossibile da ignorare) che la condizione di detenzione domiciliare gli aveva tolto. Dopo il thriller/horror Multiplex, arriva ora al cinema questo Rabbia in pugno: ma si tratta, in realtà, di una pellicola girata due anni orsono, proprio durante quel periodo in cui il regista viveva la difficile condizione di recluso in casa. E' difficile pensare che, come per il successivo Cronaca di un assurdo normale, tale condizione non abbia condizionato in maniera determinante la realizzazione della pellicola; ma, mentre per il film scritto da Emanuele Cerman, le circostanze produttive diventavano parte integrante dell'opera, sviluppata su un piano meta-cinematografico, qui queste influiscono in modo più indiretto: come traccia, se così si può dire, ma anche come base di quell'impatto rabbioso, cinematograficamente deflagrante, con cui Calvagna ha voluto iniziare a riprendersi la libertà. Al netto di qualsiasi considerazione sulla vicenda che ha visto protagonista il regista, c'è in questo film un'urgenza espressiva innegabile, la voglia di tornare a dire la propria col cinema; tradotta in quell'estetica cupa, sporca, che è l'opposto del noir retrò (ed estetizzante) del Cha Cha Cha di Marco Risi. La metropoli di Calvagna è non solo oscura (e comunque cinematografica) ma anche realmente pericolosa.


Il film narra, molto semplicemente, di una vendetta: un ex poliziotto, ora campione di kickboxing, perde la donna che ama (e da cui aspetta un figlio) apparentemente per un malore dopo una serata in discoteca, in realtà a causa di un volontario avvelenamento. La vittima, Valentina, si era recata all'appuntamento con un losco produttore cinematografico, in realtà dedito al traffico di droga e allo sfruttamento della prostituzione; questi le aveva fatto bere un drink con dentro del ghb, potente narcotico conosciuto anche come "la droga dello stupro". Appena scoperte le vere circostanze della morte della sua compagna, Valerio non perde tempo: aiutato dagli amici Fabrizio e Giordano, l'uomo si mette sulle tracce del produttore Sergio Bruschi, che nel frattempo sembra scomparso nel nulla. Mentre sua sorella Giulia tenta (con scarso successo) di frenarlo nei suoi propositi di vendetta, l'ex poliziotto cerca in tutti i modi di trovare Bruschi prima dei suoi vecchi colleghi: ma non tutto andrà come previsto, nell'azione di Valerio, che finirà col dare il via a una nuova catena di ritorsioni. In tutto questo, l'esistenza dell'ex poliziotto, ormai votata esclusivamente alla vendetta, sembra illuminata solo dalla conoscenza di Laura, giornalista che rivela un debole per lui; ma, per la stessa Laura, questa vicinanza si rivelerà inevitabilmente pericolosa.

La narrazione di Rabbia in pugno è semplice, quasi schematica. Quella che il regista mette in scena è appunto una vendetta: il plot si muove sulla linea collaudata del revenge movie, rispettandone i canoni, i caratteri di base, e reambientandolo in un contesto metropolitano segnato dal degrado e dalla legge del più forte. Papponi, prostitute, sordidi locali notturni, sbirri corrotti, e la periferia romana illuminata dall'incerta luce dei lampioni: più che il Quentin Tarantino italiano (come lo definì Gian Luigi Rondi) Calvagna sembra un epigono cinematografico (e locale) di James Ellroy, privo - volutamente - del respiro epico dell'autore di L.A. Confidential, più attento al particolare che al quadro d'insieme. La sua Roma (come da lui stesso dichiarato) è lontanissima da quella borghese di tanto cinema italiano odierno, lontana dai locali alla moda del centro, dai rituali della vita notturna, dagli odiati pariolini. Il cinema di Calvagna, corpo estraneo nell'attuale cinematografia italiana (ma anche solo in quella indipendente, a ben vedere) si nutre della sporcizia, materiale e morale, del lato dimenticato di una metropoli, della rappresentazione a tinte fosche della vita delle periferie, di valori che accomunano (sotto)proletari di ogni estrazione politica, quali la lealtà e il rispetto. Esteticamente, il cinema del regista rimanda al vitalismo dei nostri film di genere degli anni '70, senza le finezze registiche di un Fernando Di Leo, ma anche (malgrado la sua fama di cineasta di destra) senza lo schematismo ideologico di tanti poliziotteschi.
In questo senso, passa in secondo piano il fatto che Rabbia in pugno sia, narrativamente, tutt'altro che un film perfetto: che il racconto proceda a volte a singulti, che il personaggio dello stesso regista appaia e scompaia dalla vicenda, con un'evidente incertezza sulla sua collocazione narrativa. Il film ha la sua forza, che prescinde dai difetti (e dai limiti produttivi) inanella buone sequenze d'azione, alcuni combattimenti ben filmati, un climax (pur nelle imperfezioni) in definitiva ben costruito. Tra gli interpreti, giganteggia un insolito Maurizio Mattioli nel ruolo del villain, mentre il protagonista Claudio Del Falco, ottimo nel tirare colpi di kickboxing, dà il suo meglio nei momenti in cui il suo personaggio esprime proprio la rabbia del titolo. La componente più strettamente sentimentale (diremmo quasi melò) espressa da un personaggio di cui non riveliamo l'identità, sorprendentemente non stona: i forti sentimenti, in fondo, sono un tratto di base che accomuna questi angeli caduti, veri antieroi metropolitani, da sempre al centro del cinema del regista.

Movieplayer.it

3.0/5