Recensione Maddened By His Absence (2012)

Nel filmare questo dramma psicologico dalle molteplici sfumature emotive, Sandrine Bonnaire si accosta alla difficile e complessa materia trattata con il pudore e il riserbo necessari, impiegando uno stile minimalista e decidendo di affidarsi in primo luogo all'interpretazione dolente e sofferta dello straordinario William Hurt.

Memorie dal sottosuolo

Di solito quando un attore decide di passare "dall'altra parte della macchina da presa" per divenire regista spesso realizza delle opere che insistono fortemente sulla componente recitativa, quasi che vogliano indirettamente riflettere (a volte in maniera quasi autobiografica) sul mestiere dell'interprete. Non fa eccezione il lavoro da regista di Sandrine Bonnaire che, cinque anni dopo l'esordio del 2007 con Elle s'appelle Sabine (intimo documentario dedicato alla sorella autistica), torna a dirigere un altro film sofferto e struggente, Maddened By His Absence (J'enrage de son absence). Si tratta del suo primo lavoro basato su un soggetto di finzione, sebbene non sia del tutto esente da rimandi (anche extra-cinematografici) al proprio vissuto personale, a partire proprio dal fatto che questa nuova prova registica poggia quasi interamente sull'intensa interpretazione dell'ex compagno William Hurt. Al tempo stesso, al centro di J'enrage de son absence - presentato con successo alla scorsa Semaine de la Critique del Festival di Cannes - vi è però una nuova tematica: la rappresentazione del senso di svuotamento e di annichilimento interiore provocato dalla morte del proprio figlio.


Da quando Jacques (Hurt) ha perso il suo bambino Mathieu in seguito a un incidente d'auto di cui si ritiene responsabile conduce una "non vita", fondata esclusivamente sull'assenza e sul vuoto. Il dolore per la perdita ha trascinato in una baratro anche la sua relazione coniugale. Ma, mentre la moglie Mado (Alexandra Lamy) è riuscita comunque a farsi una nuova esistenza, risposandosi con Stéphane (Augustin Legrand) e mettendo al mondo un altro figlio, Paul (Jalil Mehenni), Jacques invece è fuggito negli Stati Uniti concentrandosi interamente sul suo lavoro d'architetto e trincerandosi in un totale isolamento emozionale. L'occasione di un nuovo lutto, quello del padre, lo costringe a riaffrontare nuovamente gli spettri del suo passato, che finiscono per identificarsi con il giovane Paul. Jacques infatti instaura, all'insaputa di Mado e Stéphane, una relazione con il ragazzo all'insegna del ricordo che diventa sempre più inquietante e ossessiva, e che viene consumata nella cantina della sua casa, dove sono custoditi i vecchi oggetti di Mathieu. Presente e passato finiscono così per sovrapporsi nella mente dell'uomo, che alla fine si riduce a condurre un'esistenza nel sottosuolo, come prigioniero di un limbo alimentato esclusivamente dalla memoria.

Nel filmare questo dramma psicologico dalle molteplici sfumature emotive Sandrine Bonnaire si accosta alla difficile e complessa materia trattata con il pudore e il riserbo necessari, senza cedere alla retorica e all'esasperazione dei sentimenti. Il suo stile, volutamente minimale, rifiuta in maniera categorica l'ostentazione del dolore, ma sottolinea ugualmente la dimensione psicologica e interiore attraverso piccoli gesti, lievi sguardi, desolanti silenzi. In particolare l'autrice dimostra una notevole abilità nella messa in scena, dando un notevole risalto ad ambienti e oggetti, che finiscono per assumere una valenza simbolica, a partire ovviamente dall'efficacissima scelta di rappresentare l'isolamento del personaggio di Jaques attraverso lo spoglio scantinato in cui decide volontariamente di recludersi. Tuttavia, Maddened By His Absence rimane soprattutto un "film d'attori", che prende corpo in primo luogo nella prova dolente e sofferta di William Hurt, il quale dimostra di essere in grado d'esplicare il suo enorme talento anche in lingua francese. L'interprete è comunque sostenuto da un ensemble di comprimari di notevoli capacità, dal giovane esordiente Jalil Mehenni, che esprime un'incredibile naturalezza e riesce a instaurare una profonda alchimia con il protagonista; fino all'intensa Alexandra Lamy che a tratti sembra quasi incarnare l'alter-ego della regista.