Recensione Lone Survivor (2013)

Nel corposo secondo atto del suo film, con lo scontro armato fra i quattro giovani marine e i guerriglieri talebani, Peter Berg ha occasione di sfoggiare un'ampia quantità di virtuosismi tecnico-registici, fin quasi al punto di farsi prendere la mano.

We Can Be Heroes

Il 28 giugno 2005, un team delle US Navy Seal, le forze speciali della Marina degli Stati Uniti, si inoltra fra le montagne dell'Afghanistan per portare a compimento l'Operazione Red Wings: eliminare Ahmad Shah, un ricercatissimo e pericoloso leader talebano. Ad effettuare una prima ricognizione, nel tentativo di appurare la fattibilità della missione e di individuare l'obiettivo da abbattere, sono quattro marine di età compresa fra i 25 e i 29 anni: il tenente Michael P. Murphy (Taylor Kitsch), Marcus Luttrell (Mark Wahlberg), Danny Dietz (Emile Hirsch) e Matthew Axelson (Ben Foster). Mentre sono intenti a perlustrare il territorio, i quattro marine incrociano la loro strada con quella di tre pastori afghani, fra cui un ragazzo non ancora adolescente, e si trovano di fronte a un difficile dilemma etico: ucciderli, evitando così di compromettere l'operazione, o lasciarli liberi, con il rischio che possano avvertire i talebani. Poco dopo questo incontro, all'improvviso si scatena l'inferno: un inferno dal quale soltanto uno, fra i quattro soldati, avrà la fortuna di uscire vivo...


Le ferite ancora aperte dell'America
Riflettere sulle ferite ancora aperte di una nazione costantemente impegnata in conflitti lontani, in territori che sembrano polveriere sempre in procinto di esplodere, non è impresa facile, per una pluralità di motivi. Perché non si è ancora verificato un sufficiente distacco emotivo fra il pubblico e gli avvenimenti oggetto della narrazione; perché il confine tra opera cinematografica e commemorazione celebrativa può risultare labile ed ambiguo; soprattutto, perché da un racconto per suoni, immagini e parole non necessariamente può scaturire un'autentica riflessione sulle sanguinose cronache di guerra dei nostri tempi, ma talvolta ci si trova di fronte - più banalmente - ad una rappresentazione didascalica pronta a sconfinare nella retorica. E così, se l'intelligenza e lo spirito critico di una regista come Kathryn Bigelow possono regalarci un war-movie del calibro di The Hurt Locker, o addirittura uno spiazzante capolavoro quale Zero Dark Thirty (perfetto e insuperabile punto di arrivo per quanto riguarda il cinema sulla "guerra al terrorismo"), in altri casi i risultati finiscono per rivelarsi assai meno originali e convincenti. È quanto accade, purtroppo, con Lone Survivor, film basato appunto sulla tragica Operazione Red Wings del 2005, già raccontata dal giornalista Patrick Robinson in un libro-reportage dal titolo Lone Survivor - The Eyewitness Account of Operation Redwing and the Lost Heroes of Seal Team 10, scritto a quattro mani con l'unico sopravvissuto della missione, Marcus Luttrell.

Le cronache di guerra di Peter Berg

Al timone del progetto, in qualità di regista, sceneggiatore e co-produttore, è il newyorkese Peter Berg: un passato di attore in piccoli ruoli, una lunghissima gavetta televisiva, un film del 2004, Friday Night Lights, che lui stesso ha trasformato in un'apprezzata serie Tv, e nel frattempo altri cimenti al cinema dietro la macchina da presa: un precedente war-movie, The Kingdom, il blockbuster di supereroi Hancock e infine, nel 2012, lo sbertucciatissimo Battleship. Maggior fortuna ha riscosso (perlomeno in termini commerciali) il suddetto Lone Survivor, che in patria è stato assai abile nel far leva sui sentimenti di commozione del pubblico americano (e il successo non si è fatto attendere, con il traguardo dei 100 milioni di dollari abbondantemente superato). Eppure, al di là del giusto omaggio alle giovanissime vittime delle varie guerre al terrorismo, che culmina nei titoli di coda sulle note di Heroes nella recente cover di Peter Gabriel (ma il cinema, ricordiamolo, non è "solo" luogo di omaggi), Lone Survivor mostra un grave difetto: la sostanziale incapacità di "riflettere" - ancora questo verbo, da prendere con le pinze - su quanto va raccontando, di mostrare delle sfumature inaspettate e magari non immediatamente decifrabili, di offrire piani di lettura, e possibilità di interpretazione, che vadano al di là di un primo, basilare livello narrativo. Tutti elementi che trovano ampio spazio nell'opera della Bigelow - ed è questo il motivo per il quale Zero Dark Thirty resta probabilmente il miglior film di guerra degli ultimi anni - e che invece vengono a mancare del tutto nella pellicola di Berg, assimilabile al contrario a uno degli innumerevoli action-movie sfornati quotidianamente dall'industria hollywoodiana.

Diario di guerra o cinema di propaganda?

Anche secondo un approccio narratologico, Lone Survivor mostra subito, nella sua canonica suddivisione in tre macro-segmenti, un'intrinseca semplicità (che in questo caso, ahinoi, fa rima con superficialità). Già il preambolo, fra dimostrazioni del "sano spirito competitivo" dei marine, goliardie forzatamente simpatiche - il "rito di iniziazione" del soldatino biondo e belloccio, indotto a ballare sulla musica dei Jamiroquai - e momenti di tenerezza familiare ad uso e consumo degli spettatori più sentimentali, è ben lontano dagli "sporchi" diari di guerra di film come Salvate il soldato Ryan o La sottile linea rossa, e somiglia ben più a un mega-spot delle US Navy Seal. Il secondo, lunghissimo atto, con lo scontro armato fra i quattro giovani marine e i guerriglieri talebani, è quello in cui Peter Berg ha occasione di sfoggiare un'ampia quantità di virtuosismi tecnico-registici, fin quasi al punto di farsi prendere la mano. Perché un conto è mettere in scena gli orrori della guerra, anche con un crudo iperrealismo in grado di turbare la sensibilità di chi osserva; un altro è indugiare, con compiaciuta benché magari inconsapevole sgradevolezza (à la Mel Gibson), sugli arti mozzati, sul sangue che sgorga a fiotti, sul fragore dei corpi che si schiantano contro la roccia, sulla "morte in diretta"; come nella sequenza, morbosamente ricattatoria, dell'esecuzione del soldato Axelson. Accompagnando il tutto, fra l'altro, con musiche enfatiche e ralenti spaventosamente anacronistici (con tanti saluti alle pretese di "cinema realista").

Infine, è nel terzo atto - il più riuscito ma, al tempo stesso, quello che maggiormente fa rimpiangere l'occasione sprecata - che si rivela il vero nucleo drammatico di Lone Survivor, con l'inaspettato intervento dei pastori afghani in soccorso del soldato Luttrell, unico superstite del quartetto e braccato dai talebani. Peccato però che non basti la sottile patina di umanismo dell'epilogo a nascondere l'irritante sciovinismo alla radice del film; uno sciovinismo rimarcato peraltro, in maniera smaccata ed insopportabilmente didattica, dal motto finale pronunciato dalla voce over del personaggio di Wahlberg, parafrasabile (per citare Francesco De Gregori) dicendo 'che la guerra è bella anche se fa male'. Scusateci, ma noi continuiamo a preferire di gran lunga il silenzio e le lacrime dell'agente Maya.

Movieplayer.it

2.0/5