Recensione La frode (2012)

Dopo molti anni dal successo di Wall Street con cui Oliver Stone ha raccontato i retroscena di un mondo esclusivamente maschile, ne La frode l'elemento femminile entra in "affari" rappresentando la variabile più imprevedibile.

L'economia della truffa

"L'avidità è buona". Ad affermarlo è Gordon Gekko che, interpretato da Michael Douglas, nel film di Oliver Stone metteva in scena lo spirito famelico alla base del black monday del 1987. Ciò che stupisce maggiormente, però, è che, nonostante sia trascorsi più di vent'anni da questa pellicola, non solo l'economia continua ad essere al centro del racconto cinematografico ma l'atteggiamento speculatore senza scrupoli è rimasto l'elemento invariato su cui costruire realtà fittizie e non. Il fatto è che, alla luce dell'ultimo grande collasso del mercato americano capace di colpire come un'onda d'urto l'intero panorama internazionale, il cinema è tornato a far propria l'emergenza cercando di ricomporla sotto forma di thriller più o meno intimisti. Un esempio è The Game di David Fincher, un altro Margin Call di J.C. Chandor, e poi c'è naturalmente il sequel di Stone Wall Street - Il denaro non dorme mai e, ultimo in ordine d'uscita, questo La Frode, diretto dall'esordiente Nicholas Jarecki e interpretato da Richard Gere. Come i suoi predecessori, quasi a seguire uno schema preordinato, il film cerca di scoprire il bluff di un'economia sempre più truccata mettendo in discussione l'etica fragile dell'uomo disposto a tutto pur di non perdere ricchezza e riconoscibilità. Per questo, motivo al centro del racconto il regista pone un quesito fondamentale, interrogandosi su quanto si è disposti a rinunciare al potere pur di mantenere ancora un brandello di umanità.


A confrontarsi con questa domanda dai risvolti morali è il personaggio del magnate Robert Miller che, alla vigilia dei suoi sessant'anni, viene fotografato come il re Mida degli affari, vincente nella costruzione del suo impero come nel mantenimento di una solida gerarchia famigliare. Questo, almeno, è quello che la sua immagine, attentamente costruita attraverso prime pagine di magazine finanziari e opere filantropiche, riflette. In realtà, andando oltre la copertina, si scopre un'esistenza fondata sulla menzogna e il doppio gioco, in cui tutto diventa merce di scambio sacrificabile pur di sedersi al tavolo dei grandi scommettitori e uscirne impunito. Per questo motivo Jarecki pone grande attenzione nella caratterizzazione estetica del personaggio che, attraverso una linearità fisica e stilistica, racconta la quotidianità di chi deve nascondere segreti dietro il movimento di un sopracciglio o l'eleganza contenuta di un abito. E così, attraverso questo processo evolutivo, Gere, riproponendo l'atteggiamento baldanzoso di un American Gigolò d'annata, questa volta gioca a sedurre il mercato azionario attraverso la costruzione di un'illusione a troppi zeri. Ma ciò che il film vuole mostrare va ben oltre la storia di un personaggio che, per quanto interessante, risulterebbe alla fine sterile. L'intenzione del regista, cui si deve anche la scrittura della sceneggiatura, è quello di fotografare un atteggiamento mentale, una diseducazione globale in cui troppo valore viene attribuito alla capacità e alla possibilità di evitare un'imputazione di qualunque tipo si tratti.

Una descrizione, questa, evidenziata attraverso un vero e proprio confronto di classe in cui il più debole economicamente sembra destinato a soccombere nonostante rabbia e desiderio di riscatto. Ne è prova la scelta di contrapporre l'imperturbabile sicurezza di Miller alla reazione rabbiosa e scoordinata dell'ispettore Michael Bryer (Tim Roth) che, tentando di seguire le 'non regole' dei potenti, viene miseramente battuto da chi quel gioco lo padroneggia con più sicurezza. Quindi, nel nuovo secolo, l'avversario più temibile di un business man senza scrupoli votato alla mistificazione economica e personale non può essere altro che il cuore stesso della sua famiglia. Il fulcro della propria sicurezza che, se tradito e manipolato, è in grado di trasformarsi in un nemico dalla raffinata ferocia. Così, dopo molti anni dal successo di Wall Street con cui Stone ha raccontato i retroscena di un mondo esclusivamente maschile, ne La frode l'elemento femminile entra in "affari" rappresentando la variabile più imprevedibile. Una figura, raccontata in questo caso da una Susan Sarandon capace di lasciare un segno indelebile nonostante un ruolo solo in apparenza secondario, che esibisce una superficialità tanto credibile quanto improbabile, dietro la quale si nasconde uno sguardo analitico, realista e calcolatore. Perché anche la donna, come Dio, ha ormai imparato a giocare con i dadi truccati.

Movieplayer.it

3.0/5