Recensione Kotoko (2011)

Kotoko presenta una certa ricercatezza visiva, che si esplicita soprattutto nell'attenta ricostruzione degli interni, nella presenza costante degli oggetti infantili e nell'insistenza sui colori primari, parti di un mondo in cui la protagonista si illude di poter conservare un rifugio per sé e suo figlio.

Estremismo e poesia

Kotoko è una giovane madre affetta da turbe psichiche, tra le quali spiccano la tendenza all'autolesionismo, che la spinge a procurarsi ferite sul corpo per sentirsi viva e reale, e una particolare forma di sdoppiamento della visione, che le fa apparire, accanto a ogni individuo che incontra, un duplicato malvagio e pericoloso sempre pronto a minacciare la vita di suo figlio. Solo la passione per il canto, supportata dalla splendida voce di Kotoko, riesce in parte a lenire l'ansia e le crescenti tendenze ossessive della donna; ma il bambino le sarà presto sottratto dai servizi sociali, che la giudicano incapace di prendersene cura. L'incontro con uno scrittore di successo, di lei segretamente innamorato, rappresenterà tuttavia per Kotoko una nuova possibilità di recupero dell'equilibrio, seppur portata avanti in modo singolare e più che mai precario.

Dopo le perplessità suscitate da Tetsuo - The Bullet Man, remake di quel Tetsuo che lo rese regista di culto nel 1988, uno dei cineasti più estremi e visionari del cinema giapponese torna al Lido con questo Kotoko: un'opera caratterizzata dal radicalismo visivo e contenutistico che è sempre stato proprio del cinema di Shinya Tsukamoto, con protagonista la popstar Cocco, molto popolare in patria e prestatasi qui a un ruolo tutt'altro che facile da interpretare. Come sempre, il cinema di Tsukamoto si incentra su pochi personaggi e sulla rappresentazione grafica di pulsioni incontrollabili, socialmente destabilizzanti ma allo stesso tempo base e punto di partenza per la sopravvivenza dei suoi personaggi, e per forme pur non convenzionali di comunicazione. Qui, il regista parte dal quotidiano, dalla vita di una madre mossa dal più naturale istinto di protezione nei confronti di suo figlio: la scelta tematica del regista trova un corrispettivo nel mezzo utilizzato, nell'uso di una macchina da presa digitale che conferisce al film un taglio a tratti documentaristico, senza precludere tuttavia ad esso le derive oniriche e da incubo che da sempre caratterizzano il cinema di Tsukamoto. Kotoko presenta in effetti una certa ricercatezza visiva, che si esplicita soprattutto nell'attenta ricostruzione degli interni, nella presenza costante degli oggetti infantili e nell'insistenza sui colori primari, parti di un mondo in cui la protagonista si illude di poter conservare un rifugio per sé e suo figlio. Anche il suono ha un'importanza fondamentale nella descrizione dell'universo di Kotoko: con le sue canzoni, che caratterizzano gli attimi di apertura più intensamente lirici del film, ma anche con i martellanti motivi che sottolineano la montante ossessione della protagonista e il suo costante senso di inadeguatezza.

Tutto è instabile, precario e sull'orlo di un precipizio non solo metaforico, per Kotoko: le minacce per lei e per il suo bambino sembrano moltiplicarsi esponenzialmente col passare dei giorni, i suoi stessi incubi le appaiono pronti a prender vita e a portarle via per sempre suo figlio. Solo il rapporto con lo scrittore, a cui dà il volto lo stesso Tsukamoto, sembra restituire alla donna una parvenza di equilibrio, pur basato su una violenza che appare come il necessario contraltare dell'aggressione di cui è vittima, sia da parte del mondo esterno che da parte della sua stessa psiche. I confini tra la realtà e gli ossessivi incubi della donna si fanno via via più sfumati, e neanche il canto sembra riuscire a tenere a freno la sua sofferenza: il destino di Kotoko, e apparentemente quello di suo figlio, sembrano ormai segnati.
Tsukamoto offre una rappresentazione come sempre estrema e senza compromessi dell'universo psichico della protagonista, ne sottolinea l'ossessione con una regia nervosa e improntata sovente alla ridondanza visiva, non arretra di fronte alla graficità e alla visualizzazione esplicita degli incubi della donna, anche di quelli più insostenibili. Nonostante ciò, tuttavia, Kotoko è un film che coinvolge lo spettatore e lo emoziona nei modi meno immaginabili per chi conosce il cinema del regista nipponico: la discesa all'inferno di Kotoko è soprattutto quella di una madre che vuole proteggere suo figlio, le sue canzoni sono un sussurro che può levarsi, libero e incontrollabile, anche al di fuori delle pareti di una clinica psichiatrica, sfidando quella gravità che rappresenta per lei e suo figlio un ostacolo e una minaccia. Le ossessioni della protagonista lasciano il posto, nel finale, a una placida malinconia, e l'ipotesi dell'esistenza di un futuro non è poi così impensabile. Forse è solo speranza nella speranza, ma per Kotoko (come per il cinema di Tsukamoto) è una novità non da poco.

Movieplayer.it

4.0/5