Recensione Ixjana (2012)

Una pellicola interessante e imperfetta, questo Ixjana, che colpisce l'occhio con una fotografia accattivante, ma si rivela a tratti un po' pretestuoso (e furbo) nella sua voglia di sorprendere a tutti i costi.

Un triangolo onirico

Marek Newski è uno scrittore giovane, talentuoso, di belle speranze; amico inseparabile di Arthur, Marek ha appena pubblicato il suo primo romanzo, destinato a divenire presto un vero e proprio best seller. Il giovane scrittore è però ossessionato da Marlena, donna vista casualmente per strada che non riesce a togliersi dalla mente. Quando Arthur concupisce Marlena, la rottura con Marek è inevitabile; l'ultimo incontro tra i due amici si svolge in una villa, durante una festa in maschera di cui però Marek ha ricordi vaghi e sfocati. Il problema è che Arthur sembra ora essere scomparso nel nulla: Marek è costretto così a scavare nella memoria per ricostruire gli eventi di quella festa. L'amnesia gradualmente scompare: la semplice, e terribile, verità sembra essere che, in un accesso di rabbia, Marek ha colpito a morte Arthur con il suo coltello. Ma sarà realmente così? La realtà sembra avere, ancora una volta, molte facce.

Con questo inquietante, interessante ma imperfetto Ixjana, presentato in concorso al Festival di Roma 2012, i fratelli Jòzef e Michal Skolimowski dirigono il loro secondo lungometraggio, quasi vent'anni dopo il precedente Gli uomini ombra (1993). Un'opera seconda che purtroppo sarà anche l'ultima firmata in tandem dai due: Jòzef Skolimowski è infatti morto lo scorso maggio, dopo una malattia contratta in India. I due registi/sceneggiatori, comunque, più che al padre Jerzy Skolimowski, sembrano rifarsi al cinema di David Lynch e al Roman Polanski più claustrofobico (le atmosfere di Repulsion e L'inquilino del terzo piano sono lì dietro l'angolo): la costruzione narrativa oscilla continuamente tra la realtà e l'incubo, tra la vita vissuta dal protagonista e quella immaginata dei suoi personaggi letterari, tra il presente e le varie versioni del passato, reali o ipotetiche. Il film si presenta da subito come un viaggio nella mente dello scrittore Marek (interpretato da un Sambor Czarnota con una vaga somiglianza col cantautore Nick Cave): viaggio tra la rabbia e il senso di colpa, tra l'ossessione per la donna contesa e i demoni (a volte rivelatisi letteralmente tali) partoriti dalla sua fantasia.

La costruzione visiva, elaborata e accattivante, si rivela essere la cosa più riuscita di questa pellicola, con una fotografia che colpisce immediatamente l'occhio per i suoi toni cupi e favolistici: opera di quell'Adam Sikora che già aveva colorato le scene di Essential Killing di papà Jerzy e del recente I colori della passione di Lech Majewski. Il lavoro di Sikora, insieme alle tonalità dark rock della colonna sonora, contribuiscono a dare al film un'atmosfera labirintica e malata, a tratti scivolante verso l'horror, a tratti verso un grottesco esibito e consapevole: la sceneggiatura va avanti e indietro nel tempo nella ricostruzione degli eventi di quella notte chiave, affastellando realtà, allucinazione, apparizioni dall'oscuro significato, fantasmi. La narrazione costruita su piccoli flashback, reiterati e di volta in volta differenziati, man mano che l'ipotetica verità prende forma nella mente del protagonista, nasconde una storia di alienazione e di sentimenti non corrisposti, che sfociano poi nella violenza (auto)distruttiva.

Quello che tuttavia non convince, in un'opera che appare ambiziosa quanto poco controllata, è l'impressione di gratuità trasmessa da alcune scelte estetiche (il continuo giocare con le allucinazioni, il loro moltiplicarsi poco funzionale), la costante voglia di stupire e ammaliare lo spettatore, con soluzioni di regia eleganti quanto spesso gratuite. La vicenda che costituisce l'ossatura del film, una volta ricostruita e spogliata di tutti gli elementi onirici, si rivela semplice se non addirittura esile: proprio alla luce di questo, una messa in scena così elaborata risulta ingombrante e un po' furba, una volta che il film ha scoperto le sue carte. Le visioni di un David Lynch, valide anche nella loro indipendenza da qualsiasi tessuto narrativo, sono piuttosto distanti dall'essenza di un'opera come questa, che smarrisce presto, a causa di una certa pretenziosità, la sua fascinazione. Resta comunque, questo Ixjana, un oggetto cinematografico in sé interessante, che riesce, grazie alle suggestioni che esprime, a non lasciare indifferenti; ciò, pur laddove i due registi cercano di strafare e di sovraccaricare lo spettatore di stimoli visivi, rinunciando (in parte) all'autenticità.

Movieplayer.it

3.0/5