Recensione Il sole dentro (2012)

E' uno di quei progetti che suscitano istintiva simpatia e partecipazione, Il sole dentro: principalmente per l'importanza dei temi che tratta, ma anche per la capacità di arrivare al pubblico in modo semplice e diretto, con una buona cura della confezione.

In viaggio verso la speranza

1999: due ragazzini guineiani, Yaguine e Fodè, scrivono una lettera indirizzata ai "grandi" del Parlamento Europeo. La lettera parla del tormentato continente africano, dei diritti dell'infanzia negati, della voglia di riscatto e progresso civile espressa dalle giovani generazioni. I due vanno all'aeroporto e si infilano di nascosto nel vano del carrello di un aereo: destinazione, Bruxelles, con l'intenzione di consegnare la loro missiva direttamente nelle mani dei rappresentanti dell'Europa. 2012: Rocco e Thabo sono due giovanissimi calciatori, amici per la pelle, uno italiano e l'altro africano: il primo ha una famiglia disastrata, è orfano di madre, con il padre in carcere e uno zio violento; il secondo è arrivato in Italia col miraggio di una carriera nel mondo del pallone, pagata a carissimo prezzo dalla sua famiglia. Quando i responsabili della società sportiva decidono che Thabo non è più utile, scaricano il ragazzino, con una scusa e senza tanti complimenti, nel bel mezzo dell'autostrada; ma Rocco, intuito l'accaduto, decide di troncare anche lui i rapporti con la squadra, e di andare a raggiungere l'amico. Riunitisi, i due partono per un lungo viaggio verso la città natale di Thabo: soli, a piedi e senza soldi, i due ragazzini approderanno sul continente africano e percorreranno a ritroso uno dei tanti "sentieri delle scarpe" che hanno già segnato la via per tanti africani, in fuga da fame, miseria e guerre. L'unica compagnia, quella del loro pallone, l'unica arma un entusiasmo e un ottimismo possibile solo alla loro età.

Il sole dentro è uno di quei progetti per cui ci si trova naturalmente ben disposti, principalmente per l'importanza dei temi trattati. L'idea iniziale, l'ispirazione dell'intera pellicola, è infatti un reale fatto di cronaca: la storia dei giovani Yaguine e Fodè, trovati morti nel vano di un aereo con la loro lettera indirizzata ai rappresentanti dell'Europa, quasi un grido di dolore (ma pieno anche di fiducia e speranza) da tutte le giovani generazioni del continente africano. Il film di Paolo Bianchini narra la storia dei due ragazzini guineiani parallelamente a quella (immaginaria) dei due amici Rocco e Thabo, mostrando il trait d'union tra le due solo nel finale: una modalità narrativa interessante, realizzata attraverso un intelligente montaggio che mescola i due piani temporali, fornendo solo alla fine (allo spettatore che ne fosse sprovvisto) le informazioni sul diverso setting delle due storie. Così, la storia di Rocco e Thabo si intreccia a quella di Yaguine e Fodè, con quel particolare senso dell'amicizia, tipico dell'età dei protagonisti, a fare da filo conduttore tra le due vicende.
Il film di Bianchini (già regista di culto del nostro cinema di genere negli anni d'oro, poi prestato, come spesso accade, alla fiction) è una sorta di road movie a piedi, un racconto di formazione in cui i due protagonisti sono guidati da un inesauribile senso di ottimismo, una fiducia nel prossimo (e nei propri mezzi) che cozza in modo palese con le dure vicende vissute da entrambi. La loro incredibile traversata dell'Africa, a piedi, assume quasi dimensioni mitiche: il villaggio di Ndula, che sembra sconosciuto a tutti, si carica di significati simbolici, quasi emblema di un Eden perduto, di un'isola da ritrovare e per cui lottare. E' molto forte la scelta di caratterizzare una vicenda come quella qui narrata con toni da fiaba, con un tocco improntato a leggerezza e ottimismo, con quella visione a misura di bambino che non cessa mai di informare di sé il film. L'inesausta fiducia che guida i due ragazzini, e il tono lirico/avventuroso che caratterizza il loro viaggio, rischiano in più punti di inficiare l'elemento credibilità: ma il rischio viene aggirato quasi sempre con mestiere, specie considerata la natura allegorica e morale del racconto.
Bianchini, regista esperto e non privo di gusto cinematografico, ha dichiarato di essersi voluto fare da parte e di aver evitato i virtuosismi per lasciar parlare la storia e gli attori: non di meno, ne Il sole dentro si nota più di una finezza di regia (si ricordi, per tutte, l'abile montaggio della scena in cui i due protagonisti, dopo l'abbandono di Thabo, corrono l'uno verso l'altro) e la cura della fotografia denota comunque un buono sforzo nella confezione del film. Va segnalata anche l'ottima colonna sonora, che accompagna il viaggio dei due ragazzi accentuandone la dimensione avventurosa e di esplorazione (di sé e del mondo) mentre gli interpreti si rivelano tutti abbastanza funzionali: se i due giovanissimi protagonisti, entrambi esordienti, offrono una prova apprezzabile, divertente si rivela anche l'interpretazione di Angela Finocchiaro in uno dei ruoli chiave; e soprattutto quelle di un Giobbe Covatta che deve essersi sentito a casa nell'interpretare un soggetto del genere, e di uno stralunato Francesco Salvi. Anche Diego Bianchi, nel ruolo di un simpatico funzionario del consolato, fa il suo, pur cedendo forse qualcosa alla sua esperienza da attore di cabaret, e ritagliandosi a tratti un ruolo troppo sopra le righe.

Resta comunque, quello de Il sole dentro, un progetto apprezzabile, per la natura dei suoi intenti ma anche per valori estetici, in sé, da non trascurare. Qualche inevitabile ingenuità di scrittura, e una narrazione che, specie nella parte finale, cede un po' troppo all'edulcorazione dei toni, non cancella la simpatia (meritata) che si è portati naturalmente a provare per questo prodotto.

Movieplayer.it

3.0/5