Recensione Il grande match (2013)

Il regista Peter Segal mette in scena lo scontro tra due giganti, opposti fuori e dentro lo schermo, in una commedia che gioca con la memoria cinefila, e funziona al di là dei suoi meriti strettamente cinematografici.

La memoria in pugno

Billy "The Kid" McDonnen ed Henry "Razor" Sharp sono due leggende della boxe professionistica che fu. I due pugili, infatti, dopo anni di gloriosa rivalità, e dopo due scontri diretti che hanno visto prevalere prima l'uno e poi l'altro, sono scomparsi dalle scene e hanno visto la loro carriera terminare prematuramente. Ciò, a causa dell'improvvisa, e finora inspiegabile, decisione di Razor di abbandonare il ring, dopo aver vinto il secondo scontro col rivale, negandogli così lo spareggio. Trent'anni dopo, i due sono ormai lontani dai riflettori: McDonnen gestisce un salone di auto e un ristorante, mentre Sharp è tornato a fare l'operaio presso la fabbrica in cui era impiegato prima di darsi al pugilato. Eppure, c'è chi non si è dimenticato di loro: il giovane promoter Dante Slate Jr., fiutando la possibilità di sfruttare la duratura leggenda dei due pugili, organizza un incontro "virtuale", da realizzare con l'ausilio della computer grafica. Ma, quando i due si trovano l'uno in presenza dell'altro, la rivalità si accende nuovamente: ne nasce una rissa, che finisce in brevissimo tempo su YouTube. La popolarità dei due, e il conto rimasto in sospeso trent'anni prima, tornano prepotentemente alla ribalta: un nuovo, autentico match, è ormai nell'aria. Ma sarà realistico, un evento del genere, per due ex atleti ormai ultrasessantenni?


Pugni storici
L'idea alla base di questo Il grande match (un peccato non aver tradotto meglio il titolo originale Grudge Match - che suona più o meno come "Il match del rancore" - riecheggiato dal gioco di parole "Grudgement Day" presente, nel film, come slogan per l'incontro) non può non suscitare simpatia. Anche se, stando alle dichiarazioni dello sceneggiatore Tim Kelleher, l'idea del film nacque prima del coinvolgimento nel cast di Sylvester Stallone e Robert De Niro, la memoria cinefila non può non andare ai due iconici personaggi di Rocky Balboa e Jake LaMotta, portati rispettivamente sullo schermo nella saga di Rocky e in Toro scatenato di Martin Scorsese: personaggi, e idee di cinema (e di approccio al genere sportivo) completamente diversi; persino opposti nei tratti di base, l'uno incarnazione sentimentale e muscolare del sogno americano, l'altro sua rude negazione, nel segno di una consapevole tendenza all'autodistruzione. Metterli l'uno contro l'altro, un trentennio dopo, è risultata sicuramente un'intuizione degna di nota. Interessanti i rimandi diretti (spezzoni della saga creata da Stallone nei flashback che mostrano la storia di Razor, divertenti citazioni esplicite dei due prototipi), apprezzabile la scelta di aver mantenuto un filo diretto con i "tipi" rappresentati (non solo nelle due opere di riferimento) dai due attori. La tendenza all'approccio nostalgico ed elegiaco di certo cinema moderno, e di molto suo pubblico, è pienamente rispettata.

Gli anti-rottamatori

Il punto, in effetti, è proprio questo: il genere "nostalgico", che riporta in vita, colorandole di toni crepuscolari, atmosfere ed icone di un passato cinematografico relativamente recente, sembra aver incontrato, negli ultimi anni, il favore del pubblico. Le ultime prove dello stesso Stallone, granitico eroe ormai consapevole dei suoi anni, certe autoironiche apparizioni di De Niro (l'ultima, notevole, quella in American Hustle - L'apparenza inganna), le commedie più o meno elegiache in cui il passato dei personaggi si sovrappone, metacinematograficamente, a quello degli attori (il recente Uomini di parola, in cui non a caso troviamo quell'Alan Arkin che è presente, in un fondamentale ruolo, anche qui): la voglia di resistere, senza negare ma anzi valorizzando il passare degli anni, di una generazioni di "duri" del grande schermo, sembra sempre più tener banco nella produzione hollywoodiana recente. La senilità al potere, quindi? Noi diremmo piuttosto il tentativo di far leva sulla memoria cinefila di una generazione (quella dei quarantenni) mantenendone in vita i protagonisti, unendo questi ultimi e gli spettatori in nome di un'affettuosa revisione critica di icone e simboli, tenendo sempre in primo piano il tempo che logora, ma nel contempo conferisce una dimensione mitica a personaggi, situazioni, atmosfere.

Il minimo sindacale?

Il lungo inciso che abbiamo appena fatto era necessario. Perché non si può giudicare un film come Il grande match prescindendo dal suo contesto, dalle sue star, dalla storia che queste ultime, con la loro mera presenza fisica, portano con sé: finendo per rendere quel passato, quella storia e quelle suggestioni, una parte fondamentale dell'opera. In questo senso, il lavoro del regista Peter Segal (in sé senza guizzi particolari) diventa quasi secondario. Segal, specializzato in commedie di cassetta, può limitarsi a fare il minimo, a gestire i tempi comici, a lasciare spazio alle interazioni, nel segno di una spontaneità forse frutto (anche) di improvvisazione, tra i suoi ingombranti attori (ai nomi "stagionati" presenti nel cast va aggiunta una sempre valida Kim Basinger, nel ruolo della vecchia fiamma di Razor). Poco importa, in questo senso, che la comicità a volte un po' logorroica di Kevin Hart non si integri benissimo nell'atmosfera del film, e che gli spettatori di The Walking Dead finiscano per attendersi da Jon Bernthal uno "scatto", degno del duro da lui impersonato nella serie AMC, che qui non arriva. Per certi (molti) versi, Il grande match è un film che vive, respira e intrattiene al di là dei suoi limiti.

Vittoria ai punti

Senza rivelare nulla, ovviamente, sull'esito dell'incontro che dà il titolo al film, possiamo dire che il match attoriale tra i due protagonisti è stato vinto, sia pur di misura, da Stallone. Nell'ultimo decennio, il volto invecchiato, e l'approccio sentimentale (e, diciamolo pure, consapevolmente patetico) alla recitazione dell'ex-icona del cinema reaganiano, ha finito per valorizzare la resa sullo schermo dei suoi personaggi. Per rendercelo, detto nel modo più semplice possibile, più simpatico. Il clima del film, e i suoi intenti di base, fanno sì che lo Sly attuale, quello di Rocky Balboa e dell'autoironia fracassona, ma mai nascosta, della saga de I mercenari - The Expendables, vi si adatti perfettamente. Nondimento, fa piacere vedere un gigante come De Niro abbracciare il suo personaggio non senza un evidente divertimento, offrire una prova piena di gusto e mestiere, esibire senza remore (anche sul ring) un fisico che è la negazione stessa di quello di un atleta. Un'esibizione che sottolinea la natura anche simbolica del suo scontro col rivale: scontro di mentalità, di approcci al cinema, persino di modi di invecchiare, fuori e dentro lo schermo. Uniti da quell'innamoramento per la memoria, cinefila e umana, che film come questo trasmettono a uno spettatore che, negli ultimi anni, si è fatto sempre più ricettivo e complice.

Movieplayer.it

3.0/5