Recensione Il flauto (2013)

Il film è un prodotto naif, pieno di ingenuità, non privo di una certa forza, il cui risultato però è poco coerente dal punto di vista narrativo.

Nostalgia canaglia

Gennaro Esposito approda su un'isola e non ci mette molto a capire di essere arrivato in un luogo piuttosto strano. I suoi abitanti, un uomo che si crede un olmo, una donna che insegue farfalle che non esistono, un professore che continua a porre domande inquietanti, vagano sperduti, vestiti tutti alla stessa maniera. Solo un numero li distingue gli uni dagli altri. Non è la sola stramberia di un posto in cui nessuno ha più memoria della sua vita. Dopo alcuni tentativi di entrare in contatto con quella bizzarra popolazione, Gennaro scopre l'amara verità: è morto e la sua anima è finita in una sorta di paradiso in cui altri spiriti come lui attendono di rinascere. A decidere il loro destino, però, è una multinazionale aliena che gestisce il ritorno sulla Terra di quelle anime a seconda della convenienza. Gennaro, unico a ricordare il proprio passato, ancora tormentato dalla dolorosa morte dell'amata moglie e dal fatto di aver lasciato da solo l'unico figlio, diventa suo malgrado il leader di una rivoluzione non violenta, condotta anche grazie alla musica del suo flauto, che porta alla liberazione dei prigionieri.
Troverà anche l'amore tra le braccia di Ninetta.


Se fossimo stati a Hollywood ci saremmo trovati davanti ad un film ambientato in un futuro distopico, ricco di atmosfere lugubri, arricchite dal design avveneristico di costumi e scenografie, capace di riflettere sulla contemporaneità, mostrando una società immaginaria; Il flauto, diretto da Luciano Capponi, è invece un prodotto naif, pieno di ingenuità, non privo di una certa forza, il cui risultato però è poco coerente dal punto di vista narrativo. Perché, e fa sempre bene ricordarlo, è la storia l'elemento principale di un film e se il suo senso ultimo non appare chiaro, si corre il rischio di produrre un'opera che nelle intenzioni dell'autore è netta e decifrabile, ma che risulta quanto meno fumosa e oscura. In questo caso la trama avrebbe anche elementi interessanti, il problema è che non si comprende pienamente quale sia il suo fine, come se mancasse il giusto equilibrio tra le parti e la riflessione si perdesse in una serie di grottesche raffigurazioni.

Viviamo dunque in una società che mangia i nostri ricordi, che 'sbianca' le menti, trasformandoci in fantocci senza volontà e per abbandonare questa violenta tirannia dobbiamo ripartire dall'amore, dal rispetto per le future generazioni, dai rapporti umani. E' ingiusto confutare un messaggio così nobile e vero e non lo faremo, possiamo contestare semmai il bisogno da parte del regista e autore della sceneggiatura (nonché montatore e direttore della fotografia) di infarcire questa trama con pesanti simbolismi religiosi (Gennaro costruisce il suo flauto con il legno di una croce e l'immagine di Ninetta, giunta agli ultimi giorni della sua gravidanza, ricorda le immagini sacre della Madonna), di esasperare i toni della narrazione attraverso dei personaggi che sfiorano la caricatura (il cuoco che strappa le anime, la cartomante che smista gli spiriti, il cameriere 'alieno', coperto da bende). Gli attori sono bravi e anche Patrizio Oliva è assolutamente centrato nel ruolo di Gennaro, che tuttavia ingloba ed estremizza tutti i cliché relativi ad un'idea del napoletano povero, affamato, cencioso; Capponi porta però a livello cinematografico recitazione e drammaturgia propri di un certo teatro sperimentale e la magia non sempre si compie, con un risultato finale piuttosto goffo nell'insieme.

Movieplayer.it

2.0/5