Recensione I figli della mezzanotte (2012)

L'incontro tra Salman Rushdie, con uno dei suoi romanzi più importanti, e una regista come Deepa Mehta, porta sullo schermo un film disunito, a tratti sfilacciato e oscuro, ma ricco di fascino e restituente un quadro potente di un sessantennio di storia indiana.

Una mezzanotte di magie, speranze e paure

Bombay, 1947. Mentre scocca la mezzanotte del 15 agosto, il sogno di più di una generazione di indiani si avvera: l'indipendenza dalla Gran Bretagna è divenuta infine realtà, e per le strade invase dai festeggiamenti si respira un inebriante profumo di libertà. Proprio in quella data, e in quell'ora, due bambini vengono dati alla luce: si tratta di Saleem e Shiva, rispettivamente figlio di un cantastorie di strada e di una donna povera, che muore durante il parto, e rampollo di una famiglia dell'alta borghesia indiana. Ma l'infermiera che si occupa dei due bambini, e degli altri "figli della mezzanotte" venuti alla luce in quella clinica di Bombay, decide proprio in quell'occasione di fare un gesto rivoluzionario: imbevuta degli ideali egualitari predicati dal suo amante, che vive in clandestinità, la donna scambia i due bambini nelle rispettive culle, decretando che l'uno vivrà la vita dell'altro. Saleem crescerà così nella famiglia benestante dei Sinai, e dovrà confrontarsi con le grandi aspettative del suo presunto padre, mentre Shiva vivrà di stenti, partecipando alle performance dell'artista di strada Wee Willie e sviluppando in cuor suo un odio per i ricchi. Ma le complesse vicende della nazione indiana (e del vicino Pakistan) all'indomani dell'indipendenza, finiranno presto per mescolare le carte in tavola e modificare il destino dei due ragazzi.


L'incontro di un autore come Salman Rushdie, forse il più importante scrittore indiano contemporaneo (di certo il più noto), con una cineasta già da tempo sotto gli occhi di critica e pubblico come Deepa Mehta, non poteva che destare un certo grado di aspettative. Si aggiunga il fatto che un romanzo come I figli della mezzanotte, lungi dall'aver suscitato le stesse discussioni e divisioni del più noto I versetti satanici, resta comunque un caposaldo della carriera del suo autore e della letteratura indiana: opera iconica e complessa, che attraversa un sessantennio di storia dell'India (e non solo) intrecciandola con le vicende di un gran numero di personaggi, la cui vita si lega a doppio filo ad alcuni degli eventi storici più importanti dell'ultimo secolo. Romanzo storico, quindi, ma anche opera legata a quel realismo magico di cui Gabriel Garcia Marquez, col suo Cent'anni di solitudine, fu il più importante rappresentante. In effetti, è facile ritrovare, nell'opera di Rushdie, più di un punto in comune con quella di Marquez: nell'ampio respiro temporale, nel clima epico della narrazione, nella grande quantità di personaggi e di eventi, che richiedono al lettore un certo grado di impegno e dedizione per essere districati e assimilati. Soprattutto, i due romanzi (come i due autori) sono accomunati dalla perfetta integrazione di quell'elemento fantastico, qui rappresentato dai poteri telepatici con cui Saleem chiama a sé le presenze incorporee degli altri "figli della mezzanotte", con un tessuto narrativo altamente realistico, spesso spietatamente crudo nella descrizione degli eventi storici attraverso i quali si snoda.

Posto che la trasposizione cinematografica di un'opera del genere era tutt'altro che compito semplice, e premessa l'indiscutibile abilità della regista nella messa in scena (nonché il suo notevole gusto figurativo) va detto che I figli della mezzanotte resta in gran parte vittima delle sue stesse ambizioni. Non è un caso, probabilmente, che lo stesso Rushdie fosse inizialmente contrario ad occuparsi personalmente della sceneggiatura, e abbia ceduto solo dopo le insistenze della regista e del produttore David Hamilton: è vero, con ogni probabilità, ciò che è stato affermato dalla stessa Deepa Mehta in conferenza stampa, ovvero che l'autore anglo-indiano è ormai persona molto diversa da quella che un trentennio fa concepì questa storia; ma non è detto che questa "distanza" (temporale e personale) dell'autore dal narrato, abbia necessariamente ricadute positive sul risultato. Ciò che emerge dalla visione del film, dalla durata comunque ragguardevole (quasi due ore e mezza) è una struttura evidentemente disunita, sfilacciata, incapace di fondere armoniosamente le tante sottotrame che la storia offre. Si resta a tratti affascinati dalle alterne vicende di Saleem, della sua nemesi Shiva, della strega Parvati, nonché dal complesso contesto sociale in cui questi si muovono: gioie e miserie, separazioni e riconciliazioni, disillusione e slanci ideali. Il tutto, però, procede a singhiozzi, così come a singhiozzi (o a intermittenza) finiscono per far capolino le emozioni nella mente dello spettatore; incapace di empatizzare davvero con personaggi le cui vicende risultano a tratti confuse, poco leggibili e quindi più difficili da far proprie a livello emotivo.

Il quadro d'insieme, pur sfilacciato, poco coerente, sofferente di lungaggini e di altrettanti passaggi oscuri, resta comunque non privo di fascino: si coglie lo stesso, da quelle immagini potenti, che restituiscono le storie personali dei membri di una nazione in mutamento, quell'afflato epico e intimo insieme, caratterizzato dall'ottimismo della ragione, che aveva informato di sé le pagine di Rushdie. Questi, così abile nel fondere suggestioni, eventi ed emozioni in una prosa letteraria altamente ammaliante, si rivela in difficoltà con un mezzo (a volte è bene ribadirlo) radicalmente diverso dalla scrittura. L'importanza dell'opera originale, e l'ambizione stessa del progetto, fanno comunque de I figli della mezzanotte una pellicola da vedere e ragionare, anche nella semplice ottica di avvicinarsi al suo prototipo letterario.

Movieplayer.it

3.0/5