Recensione Fukushame: Il Giappone perduto (2012)

E' un documentario coraggioso e insolito, quello di Alessandro Tesei, che ci porta nel cuore della "No-go Zone" intorno alla centrale nucleare, mostrando l'impatto che il disastro ha esercitato, a più livelli, sulle popolazioni locali.

Una minaccia invisibile e permanente

Il terremoto e lo tsunami dell'11 marzo 2011, nonostante il carico di lutti e distruzione che hanno portato con sé, sono stati recentemente un po' messi da parte dalla grande stampa internazionale; sostituiti nell'agenda mediale da eventi che, nei due anni che ormai ci separano da questo disastro, sono forse parsi a noi più vicini. Paradossalmente, l'evento che, tra quelli collegati alla tragedia, è verosimilmente destinato ad avere un impatto maggiore e più duraturo sulle generazioni future, il danneggiamento dell'impianto nucleare di Fukushima e la conseguente contaminazione radioattiva, è quello su cui è calato il più evidente velo di silenzio. Non si è dimenticato di Fukushima, tuttavia, il cinema (principalmente quello nipponico) che ha rappresentato in più di una pellicola l'incidente e le sue conseguenze: Sion Sono, subito dopo la tragedia, ha re-ambientato nel distretto il suo Himizu, e ha successivamente dedicato al disastro il suo dramma The Land of Hope; nel corso dell'imminente Festival di Berlino, inoltre, saranno proiettati ben tre film incentrati sui fatti di Fukushima (Nuclear Nation di Atsushi Funahashi, No Man's Zone di Toshi Fujiwara e Friends After 3.11 di Shunji Iwai). Sorprendentemente, però, uno dei primi lungometraggi dedicati al disastro è di produzione italiana: Fukushame: Il Giappone perduto documenta il viaggio del regista Alessandro Tesei nel cuore della zona contaminata, al seguito del gruppo animalista Animal Forest.


Il documentario di Tesei, realizzato insieme al co-sceneggiatore e videoartista Matteo Gagliardi, si avvale di una serie di testimonianze, interviste e spezzoni di filmati realizzati all'interno e nei dintorni della "No-Go Zone" (quella sita nel raggio di 20 km dall'incidente); oltre a materiale di origine televisiva, come quello realizzato da Sky Tg 24, a testimonianze di esperti sull'argomento (tra questi, il giornalista Pio D'Emilia, collaboratore della stessa rete di informazione satellitare) e a un'inedita intervista all'allora premier giapponese Naoto Kan. Ciò che ne viene fuori è un interessante, inedito esempio di docu-road movie (sposando la definizione che ne ha dato lo stesso Gagliardi) che restituisce un affresco d'impatto, cinematograficamente forte, di una realtà che l'incidente ha compromesso su più piani: quello ambientale, ovviamente, ma anche quello economico, sociale e affettivo. Il sottotitolo del film risulta quantomai appropriato, dal momento che quello mostrato nel film è davvero un pezzo di Giappone perduto: Tesei e il suo gruppo si muovono tra città fantasma, distese di lande innaturalmente prive di presenze umane, animali che si aggirano ignari in questo paesaggio surreale, apparentemente tornato al pieno possesso della natura. La contaminazione è una presenza incorporea, insidiosa, rilevata solo dal contatore Geiger del regista, le cui pulsazioni salgono di frequenza al crescere della radioattività: come un mostro invisibile in un film di fantascienza, il cui avvicinarsi venga rilevato grazie a un'apparecchiatura elettronica.

Nel suo viaggio dentro e intorno alla zona proibita, Tesei vuole documentare l'impatto dell'incidente sulla vita delle popolazioni locali, ai diversi livelli a cui accennavamo: le interviste realizzate mostrano non solo la paura della contaminazione, che continua a serpeggiare e a compromettere finanche le più banali azioni quotidiane (come bere un bicchier d'acqua); ma anche lo sfaldamento del tessuto sociale, la disgregazione forzosa dei nuclei familiari, il violento spezzarsi dei legami solidaristici primari, a seguito della forzata evacuazione delle aree contaminate e della difficoltosa riallocazione delle famiglie sul territorio. L'alternarsi di testimonianze, interviste, immagini televisive e riprese "sul campo" è reso con uno stile nervoso e un'estetica del tutto peculiare: l'uso continuo del grandangolo deforma i paesaggi, dando al documentario un look iperrealistico, quasi onirico, e saldandosi bene col col commento sonoro di stampo elettronico. La valenza politica dell'operazione, la nettezza del punto di vista che porta avanti, e il suo valore divulgativo, risultano evidenti: questo Fukushame: il Giappone perduto ha innanzitutto lo scopo di squarciare un velo di silenzio, di mettere a nudo il fatto che nulla, in quel pezzo di territorio abbandonato, è stato in realtà risolto, e che le conseguenze del disastro andranno valutate progressivamente nel corso dei decenni. Viene un brivido nell'ascoltare la testimonianza del premier "pentito" Naoto Kan, che ammette di aver nascosto l'entità della tragedia alla popolazione ("c'è un momento per dire e uno per non dire", dice l'ex primo ministro); mentre la subalternità della politica agli interessi dei potentati economici (gli stessi che non hanno voluto dismettere un impianto vecchio e senza manutenzione, in una zona ad alto rischio sismico) fanno vibrare di indignazione. E il rifiuto dei responsabili della Tepco, azienda proprietaria della centrale, a rilasciare interviste per il film, vale in questo senso più di qualsiasi testimonianza.

Movieplayer.it

3.0/5