Recensione Fiabeschi torna a casa (2013)

A undici anni di distanza da Paz! di Renato De Maria, torna al cinema il personaggio di Enrico Fiabeschi, cronico outsider fuori corso non solo all'università ma anche nella vita: figura marginale nei fumetti di Andrea Pazienza, diventa protagonista grazie a Max Mazzotta, che riprende il personaggio in una storia di ricerca introspettiva.

Tornare per capire chi siamo

Enrico Fiabeschi è probabilmente uno dei personaggi meno conosciuti fra quelli nati dalla matita e dalla fantasia di Andrea Pazienza. Ma le poche tavole in cui compare gli sono sufficienti per diventare l'iconico prototipo dello studente fuori sede e fuori corso, senza un passato e soprattutto senza un futuro, confinato in un eterno presente, incapace di programmare la propria vita oltre la quotidianità fatta di espedienti che puntualmente falliscono. Nella Bologna degli anni '70 rappresentava il fallimento e lo smarrimento esistenziale di un'intera generazione. Visto che le dinamiche degli studenti universitari non sono per niente mutate, Fiabeschi nel suo piccolo incarna ancora a tanti anni dalla sua nascita una sorta di personaggio universale e trasversale per varie generazioni che si alternano, ma la cui indole rimane sempre fedele a sé stessa: per questo l'immedesimazione col personaggio era intuitiva e immediata per chi leggeva il fumetto negli anni '70, e probabilmente lo è stata nel 2002 per chi ha visto Paz! di Renato de Maria, dove appariva per la prima volta al cinema Enrico Fiabeschi.


Ad interpretarlo anche allora era Max Mazzotta, istrionico attore di teatro ancora prima che di cinema, che a undici anni di distanza riprende il personaggio in una sorta di vero e proprio spin-off da lui stesso scritto e diretto. Mentre quello di Paz! viveva nella Bologna degli anni '70 come nel fumetto originale, in questo Fiabeschi torna a casa lo ritroviamo ai giorni nostri: oramai quarantenne, disoccupato, negli anni dell'università non ha concluso nulla. Piantato anche dalla storica fidanzata Anna, non ha un lavoro per mantenersi, gli amici hanno preso la loro strada, anche la stessa Bologna gli è diventata ostile, per cui sente che è giunto il momento di tornare a casa in Calabria. Nel paese natio di Cuculicchio ritrova la famiglia, il padre Giuseppe (Ninetto Davoli), la madre Maria (Rita Montes), e la rintronata zia Maria (Lunetta Savino), oltre alla sorpresa di un fratello nel frattempo adottato. Tutto è rimasto immutato al paese, i luoghi, la famiglia e gli amici di sempre, che cercano di "sistemarlo" tra raccomandazioni e improbabili iniziative lavorative. In questo immobilismo totale, solo gli sguardi di Sara (Deniz Ozdogan), la ragazza muta che lavora al bar, sembrano provocare a Enrico reazioni e stimoli nuovi.

Fiabeschi torna al Sud, dunque, a casa, come metafora evidentemente della generazione che ha fallito nel sogno di "farsi una vita al nord", ma probabilmente nelle intenzioni del regista, qui all'esordio, anche un percorso introspettivo verso un ritorno metaforico a se stesso: un'esigenza, un dissidio interiore, che nasce dalla riflessione sui suoi disastri e sulla sua inadeguatezza, forse da un barlume di coscienza che per la prima volta inizia ad affacciarsi nella sua vita. Una ricerca dell'io che porta il protagonista ad acquisire la consapevolezza che la "casa siamo noi", ovunque andremo e saremo, la nostra "dimora interiore" sarà con noi. Questo uno dei tanti spunti del film, piuttosto ambizioso per altro, unitamente alla restituzione della realtà di un Sud, tratteggiato in maniera quasi surreale, per descrivere un microcosmo paralizzato dove nulla succede e nulla muta: i dialoghi nonsense con gli amici nella piazzetta in questo quadro sono una delle cose migliori del film.

L'aderenza al fumetto si sente spesso, primo tra tutti nell'interpretazione di Mazzotta, che come in Paz!, tenta di dare una consapevolezza istintiva al personaggio con i commenti ad alta voce e riprendendo l'idea di rivolgersi al pubblico con gli sguardi e le smorfie in macchina: attore fisico e di chiaro background teatrale, Mazzotta si trova a suo agio con questa tecnica che contribuisce alla creazione di una maschera grottesca e surreale da outsider cronico, sia in trasferta che in patria, sulle orme anch'esse ambiziose di un Il grande Lebowski nostrano (omaggiato esplicitamente dalla divertente parodia di Paolo Calabresi del Jesus di John Turturro). Il problema è che tutte queste intuizioni rimangono tali e non diventano una storia, non sono supportate da una sceneggiatura che sviluppi a dovere i vari spunti proposti: nel film alla fine succede poco o niente e si riduce tutto ad un farsa in bilico tra riflessione karmica e pariodia surreale che non sembra mai sapere che strada prendere, dove rimangono una serie di gag da commedia, alcune anche divertenti, e le mille facce del protagonista, senza un vero e proprio filo conduttore che le leghi e ne faccia una storia e un film. Lo si guarda con affetto e i personaggi sono anche simpatici e ben tratteggiati, ma alla fine quello che ne rimane è piuttosto esiguo.

Movieplayer.it

2.0/5