Recensione 47 Ronin (2013)

Traendo spunto da una vicenda iconica per la cultura giapponese, l'esordiente Carl Rinsch dirige un film che inserisce la storia su una matrice fantasy di marca tipicamente occidentale.

La vendetta fantastica

Quella dei 47 ronin è una vicenda iconica, da tempo parte della cultura giapponese e già portata sullo schermo numerose volte. L'origine è un fatto storico risalente al XVIII secolo: un nobile viene costretto a commettere seppuku per aver assalito un maestro di protocollo dello Shogun, che lo aveva pubblicamente insultato. I quarantasette guerrieri al suo servizio, diventati ronin (samurai senza padrone) decidono di vendicarlo: dopo aver pianificato per due anni l'operazione, penetrano nel palazzo del nobile e lo uccidono, insieme a tutti i suoi discendenti maschi. In seguito all'azione, comunque vista con favore dalla nobiltà in quanto ritenuta coerente coi principi del bushido, 46 dei 47 guerrieri vengono condannati a loro volta a commettere seppuku; mentre al più giovane viene risparmiata la vita, per consentirgli di onorare gli spiriti dei defunti.

La vicenda dei samurai ribelli, considerati eroi popolari in Giappone, consta di almeno sei adattamenti cinematografici: i più noti sono la fluviale opera di Kenji Mizoguchi I 47 ronin ribelli (1941) di circa 4 ore di durata, il film Chushingura: The 47 Ronin (1962) di Hiroshi Inagaki, e la pellicola di Kon Ichikawa del 1994, 47 Ronin. Anche la televisione ha più volte celebrato il mito dei 47 guerrieri; tra i prodotti ad essi dedicati, si ricorda una serie del 1971 (con Toshiro Mifune), e due più recenti, risalenti rispettivamente al 1999 e 2004. Una vicenda, dunque, talmente nota da trasformarsi in archetipo, una narrazione che la cultura di massa ha già da tempo rivestito dell'aura del mito. Era in effetti curioso che Hollywood non se ne fosse, finora, mai interessata: lo fa adesso con questo 47 Ronin, diretto dall'esordiente Carl Rinsch, e con un Keanu Reeves che veste i panni di un guerriero mezzosangue, emarginato dai suoi stessi compagni.


La storia si tinge di fantasy
Il film di Rinsch dà della vicenda una lettura che si contamina, fortemente, con elementi fantastici. Qui, il nobile Asano aggredisce il maestro di cerimonie Kira sotto l'influsso di un maleficio, compiuto da una donna-demone che è consigliera dello stesso Kira; quest'ultimo vuole impadronirsi dell'intero feudo, e ha inoltre mire sulla figia di Asano, la giovane Mika. Il mezzosangue Kai è invece cresciuto nel bosco fuori del villaggio, allevato da creature sovrannaturali chiamate Tengu, che lo hanno iniziato alle arti del combattimento; trovato e preso sotto la sua ala protettrice da Asano, il ragazzino cresce come un emarginato, ripudiato da tutti i suoi compagni a causa del suo sangue misto, ma segretamente amato da Mika. Venduto come schiavo dopo il seppuku di Asano, l'uomo viene rintracciato e liberato da Oishi, il samurai che aveva il più alto grado tra quelli del nobile defunto, che capisce di aver bisogno di lui per compiere la sua vendetta.
Il plot ricolloca così gli elementi della vicenda storica (la tentata uccisione del maestro di cerimonie, il suicidio imposto, la vendetta dei ronin) su un tessuto di marca fantasy, molto occidentale nelle modalità rappresentative malgrado l'uso di elementi della mitologia orientale (il Kirin, creatura uccisa dal protagonista all'inizio del film, il drago evocato dalla strega, il guerriero Oni); aggiungendovi inoltre una love story che muove in parte le azioni del protagonista, descritto come un fiabesco cavaliere medievale più che un ronin reietto.

Problemi linguistici

Il limite più macroscopico di questo 47 Ronin, che tuttavia sarà rilevabile solo da quei pochi che vedranno il film in lingua originale, è di natura linguistica: la scelta di girare il film in inglese crea, nei dialoghi, un clima surreale che ne affligge gravemente la credibilità, per gli evidenti problemi di pronuncia del cast nipponico. Sappiamo benissimo che questo limite resterà invisibile a gran parte del pubblico, che ovviamente vedrà la versione doppiata; ma ci è sembrato ugualmente doveroso segnalarlo, visto che si tratta di una scelta che ha fatto parte integrante del processo produttivo del film; e visto anche che nelle edizioni home video sarà comunque possibile apprezzare la traccia audio originale. Non si capisce perché la produzione non abbia deciso di affidarsi al ridoppiaggio, posta la scelta di utilizzare comunque l'inglese come lingua originale; sappiamo benissimo che rinunciare alla presa diretta significa, nella maggior parte dei casi, sottrarre qualcosa alla spontaneità e al realismo dei dialoghi, ma, dato l'effetto creato dalle linee pronunciate dal cast nipponico (che consta praticamente di tutti i personaggi principali, con l'eccezione di Reeves) questo sarebbe stato sicuramente il male minore. Vedere dei samurai settecenteschi che parlano un inglese stentato non aiuta certo l'identificazione e l'ingresso dello spettatore nell'universo della storia.

Frammenti di vendetta

La struttura frammentaria ed episodica della sceneggiatura è un limite che risulta, invece, rilevabile da chiunque. 47 Ronin manca, principalmente, di una narrazione armonica, che dia il tempo allo spettatore di appassionarsi alla vicenda, di empatizzare con i suoi personaggi, e di sentire come necessaria la vendetta che sta al centro della storia. Lo script, opera di Chris Morgan e Walter Hamada, unisce in modo maldestro e posticcio la vicenda dell'eroe reietto (con l'annessa, superflua love story) con quella più generale della vendetta dei 47; dilungandosi, nella prima parte, su eventi poco rilevanti che riguardano il primo (quali il combattimento col guerriero di Asano), la sceneggiatura non riesce a creare un clima tale che dia all'azione dei ronin il carattere di tragicità ed epicità necessarie. Non emerge, in particolare, la statura del personaggio di Oishi (interpretato - ed è un peccato lo spreco del suo talento - da un attore come Hiroyuki Sanada) così come la complessità del suo rapporto con Kai; a quest'ultimo, da par suo, dà volto un Reeves che appare svogliato, scarsamente espressivo e (data la tipologia di personaggio) anagraficamente poco credibile.

Ricostruire un mondo

Il regista mette in scena in modo sostanzialmente corretto le sequenze d'azione, ma carica anche i principali passaggi del plot di un'epicità forzata, non sorretta com'è da una struttura narrativa valida. In questo caso, l'uso continuo di dolly e panoramiche, a sottolineare le diverse fasi dell'impresa dei ronin, risulta alla lunga stucchevole; così come poco funzionale appare l'insistenza sui paesaggi di un Giappone ricostruito (il film è girato in Ungheria) e l'uso di un commento musicale che riecheggia vagamente quelli di titoli come La tigre e il dragone ed Hero. A questo, va unito l'uso di un 3D poco utile, avvertibile solo in poche sequenze e tale da non aggiungere molto alla resa visiva del film.
La domanda che ci si pone, al termine di quello che resta un blockbuster non riuscito, è se fosse proprio necessario scomodare una vicenda storica come quella dei ronin ribelli, per giustificare un prodotto che in realtà riprende (in modo poco efficace) estetica e modalità narrative del più recente fantasy occidentale. Se il tentativo era unire (per l'ennesima volta) Oriente e Occidente al cinema, va detto che negli ultimi anni questo scopo è stato raggiunto, meglio, da tanti altri prodotti. E l'unico vero pregio (indiretto) che ci sentiamo di riconoscere al film, è la possibile spinta alla visione delle precedenti pellicole sulla vicenda, alcune delle quali risultano tra le più importanti della cinematografia nipponica.

Movieplayer.it

2.0/5